Barack Obama è un titolo in ribasso. Giù nei sondaggi e giù nella popolarità.Soffre da matti,e si vede.Fatica,e si sente.L’uomo che avrebbe dovuto risollevare l’America da una complicata crisi economica rischia di affondarla nel primo default della sua storia. Giù, ecco. Giù giù. Qui non c’è in ballo il futuro degli Stati Uniti e la loro potenza globale. C’è il presidente, c’è lui, c’è un’aspettativa pressoché infinita che può schiantarsi contro il muro di una figuraccia epocale. Se Obama non trova un accordo sul debito federale con i repubblicani non falliscono gli Stati Uniti, come cerca di far credere la propaganda di democratici e stampa liberal.
Chi fallisce è la Casa Bianca. Perché la crisi americana è poco economica e molto politica, perché gli economisti hanno spiegato che il problema degli Usa è contabile e non sostanziale. L’America ha i soldi, l’America è ricca, l’America è solida: le serve solo una norma, un passaggio legislativo che certifichi il suo benessere. Basta una firma per risolvere tutto. Solo che quella firma che non c’è può stravolgere il futuro della politica, molto più di quello della società. Rischiano i repubblicani, certo.
Rischia soprattutto Obama. Perché ha costruito la sua ascesa sul carisma, sulla capacità di superare le barriere ideologiche, sulla forza di una leadership naturale, sull’abilità nel trascinare le folle e convincere persino gli avversari politici. Crollare sul debito significherebbe esattamente perdere tutto questo: carisma e leadership. E poi credibilità. Si potrà sforzare di far capire che i repubblicani abbiano contribuito pesantemente al default, ma poi la sintesi finirà per essere questa: l’America di Obama è fallita. Un danno colossale anche solo di immagine, ma difficile da sopportare da uno che sull’immagine ha conquistato gli Stati Uniti e il mondo. Obama è all’angolo.
Sa che ci sono buone probabilità che l’accordo con i repubblicani si faccia. Non sa però a che prezzo. La data finale è il 2 agosto. Poi non crollerà il mondo, ma potrà crollare il castello di certezze su cui il presidente sta cercando di costruire il futuro immediato e poi quello più lontano, cioè la ricandidatura e la potenziale rielezione nel 2012. Per lui, abituato a vincere, capace di pianificare tutto, è una fregatura. Vede quei sondaggi, li vede ogni giorno: Washington Post e Abc raccontano che più di un terzo degli americani pensa che la politica del presidente danneggi l’economia e, fra i suoi stessi sostenitori, cresce la sfiducia sulla sua capacità di creare nuovi posti di lavoro. Legge anche gli altri: oggi con molti dei possibili avversari repubblicani alle presidenziali, Obama perderebbe.
I numeri valgono quello che valgono, ma questi fanno male comunque. La disabitudine alla sconfitta fa il resto. Ha paura, il presidente. Ha paura che il Paese lo giudichi il responsabile del crac del sistema federale. Fosse anche per un solo giorno. Fosse persino per una sola ora: Obama il Messia sarebbe sostituito con Obama il bancarottiere. Yes we can , ma al contrario. Si può fare, sì, anche il peggio. È per questo che evoca scenari inquietanti: ha parlato di armageddon, di catastrofe, di America al bivio, di mondo che sta a guardare. Tutto vero e tutto montato oltre misura per un ritorno politico. Perché questa è la storia americana di questi giorni: un conflitto ideologico-politicostrumentale.
Democratici contro repubblicani, con tutto quello che vuol dire. Il presidente in mezzo, tra l’obbligo di essere al di sopra e il dovere di essere comunque partigiano per non perdere la fiducia dell’elettorato liberal. Umano, Barack. Umano e terra terra, come tutti i politici di ogni generazione. Umano e diverso da come l’hanno descritto in troppi, quando cercavano di trasformarlo nell’icona della perfezione. La difficoltà sbatte in faccia al mondo come sei davvero: Obama è normale. Come uomo, come politico, come presidente. Combatte per interesse di parte, promette e non mantiene, tira fuori la rabbia quando lo mettono alle strette, minaccia non appena pensa di poter essere minacciato. Vive sotto ricatto, adesso. Sì: i repubblicani lo stanno ricattando politicamente.
E lui che fa? Gioca al rialzo: ricatta il doppio per uscire dall’angolo, come il pugile che per venire fuoridalle corde tira un cazzotto sotto la cintura. Uno solo. Ci sta e può funzionare, ma fa tanto leader in affanno, tanto capo in crisi di identità. L’avevano chiamato il conciliatore perché dicevano che avrebbe mediato sempre. Era l’America viola, il mix tra il blu democratico e il rosso repubblicano. Era tante cose, ora è Barack Obama, presidente in crisi personale e politica. Sul ciglio di un default che non sarà mai il fallimento degli Stati Uniti, ma che può essere una botta pesante per la sua presidenza e per il suo futuro.
È incazzato e intimidito per questo.
Prenderebbe gli avversari che lo stanno mettendo in difficoltà e li mangerebbe uno a uno. Piaccia o non piaccia, mister Obama è semplicemente un uomo di potere, anzi, ancora il più potente del mondo. Non ha voglia di perdere mai, per sé molto prima che per il suo Paese.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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