Usa, il tempo nemico dei democratici

Obama non si fida di quelli che gli sorridono. Sa di essere un problema, per gli altri. Lo sfidante che diventa il protagonista, il giovane che raggiunge l’esperta, il secondo che si mette allo stesso livello della prima. Piace a metà il suo successo: il partito, l’apparato, il sistema godono eppure no. Volevano un Barack brillante, l’immagine di un uomo nuovo, del futuro che comincia a farsi vedere. Giovane, affascinante, coinvolgente. Però quelli che vivono le stanze del potere, quelli che avevano mosso le pedine prima del voto, facevano tutti il tifo per Hillary. Lo fanno ancora, anche se la pacca sulla spalla a Barack è uno sport comune e piacevole, pure se il è-lui-la-nostra-faccia è uno slogan che riempie la bocca persino degli uscieri della sede del partito a Washington.
Stuzzicava il progetto: mettere in crisi Hillary per renderla più malleabile e gestibile, per sfondare il muro di certezze del suo clan, per intrufolare qualche uomo giusto nello staff. Barack era il grillo parlante. L’onda lunga delle sue vittorie ha capovolto tutto: ora psicologicamente il front-runner è lui. L’America non vuole più sapere se c’è qualcuno in grado di battere Hillary, ma se Obama sarà in grado di vincere. Così adesso il senatore dell’Illinois paradossalmente è un problema anche per la struttura democratica. Il testa a testa gonfia il petto dei repubblicani, la battaglia interna mostra il lato debole di un partito da sempre diviso, spaccato, meno forte degli avversari conservatori. Il presidente dei Democrats, Howard Dean, è teso. «Bisogna trovare una soluzione entro marzo, per non dare troppo vantaggio ai repubblicani». Sotto sotto sperano tutti che Barack si ritiri per il bene del partito. Forse gli offriranno un futuro certo, una candidatura blindata nel 2012 (in caso di sconfitta democratica a novembre) o nel 2016.
L’idea di arrivare alla convention di Denver così, con la conta dei delegati che non torna mai, è un incubo. Perché lì bisognerà sceglierne uno e a sceglierlo saranno i 796 superdelegati, cioè governatori, ex senatori, eminenze grigie democratiche. Gente spesso senza volto e senza storia, ma con il potere di decidere chi mandare alla battaglia per la Casa Bianca con John McCain. È già successo. Poche volte, ma è successo. Dicono tutti che con quei superdelegati stretti alla casta potente che governa il partito dell’Asinello, la Clinton sia in vantaggio: «Lei è la candidata dell’establishment». S’è letto, s’è sentito. E però Obama continua a recuperare anche tra loro e soprattutto continua a piacere alla gente: prende i voti di quelli che nessuno avrebbe immaginato votassero per lui, tipo i neri dei ghetti. Allora è lì: volto nuovo, con un popolo alle spalle, con l’effetto dei giovani andati a votare solo perché c’era lui. Guaio per i burattinai del partito. Come faranno a farlo fuori? Come riusciranno in una stanza secondaria della convention di Denver a eliminare uno che da candidato di seconda fascia s’è preso tutta la scena? Nel nome degli ordini di scuderia potranno scegliere Hillary.

Logico, scontato, persino giusto. Rischioso, però. Gli obamiani vogliono lui e se arrivasse lei alla nomination potrebbero anche votarle contro. Panico. E numeri: oggi McCain vincerebbe le presidenziali con Hillary. E però perderebbe contro Obama.

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