Va male l’asta dei Btp: lo spread s’impenna a quota 467

«Francoforte, abbiamo un problema». Odissea nello spazio monetario, atto secondo. O quasi. Perché se è vero che l’allarme rosso non è ancora scattato, di sicuro nella sala comandi del Tesoro qualche lucetta di malfunzionamento si è riaccesa ieri non appena conclusa l’asta dei Btp. I Buoni poliennali sono il miglior termometro per valutare il grado di affidabilità verso l’Italia, rimasto ieri molto basso. I rendimenti sono tornati a essere una specie di tunnel percorso a fari spenti, con il tasso d’interesse dei decennali salito dal 5,84% al 6,03% e quello dei quinquennali dal 4,85% al 5,56%. Male, considerato che certe cifre non si vedevano dal novembre 2011.
Sarà un caso, ma da quando la Bce ha smesso di calmierare la febbre da rendimenti e da spread interrompendo gli acquisti dei bond periferici, in particolare italiani e spagnoli, abbiamo rimesso i piedi su un campo minato. I compiti a casa ormai fatti (leggi: il tirar di cinghia obbligato da nuove tasse, imposte e balzelli), qualche riforma abbozzata e la spending review che lascia presagire un maggior e miglior uso di forbici sulla spesa pubblica, non sono al momento garanzia di successo per collocare il debito della Repubblica. Tanto più che il risultato di un’emissione non si misura solo da quell’ascensore che sono i tassi, ma anche dalla domanda. E ieri, non c’è proprio stata una ressa per mettere le mani sui nostri Btp: in tutto, sono stati «piazzati» bond per 5,73 miliardi mentre la domanda si è attestata a 7,85 miliardi rispetto a un’offerta pari a 6,25 miliardi.
Il vice ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, ha parlato di «condizioni di mercato non ideali». Non ha tutti i torti. Per trovare il «tutto esaurito» bisogna guardare altrove: ai bund tedeschi, ai T-bond Usa e ai Gilt inglesi, lì dove la corsa all’acquisto del bene-rifugio finisce per schiacciare i rendimenti. Sono queste dinamiche divergenti a favorire l’allargamento dei famigerati spread, a far soffrire i Btp (differenziale a 467 punti) e i Bonos spagnoli (a quota 540, ennesimo record negativo). Il resto è frutto dell’avvicinarsi delle elezioni-bis in Grecia in un continuo ribaltamento dei sondaggi, ora a favore dell’ala sinistra anti-austerity. Torna così in pista l’opzione Grexit, cioè l’addio di Atene all’euro, e aumentano le fibrillazioni dei mercati. A farne le spese, in prima battuta, è stato ieri proprio l’euro, sceso per la prima volta dal luglio 2010 sotto gli 1,24 dollari. Le Borse europee hanno bruciato 100 miliardi (Milano ha ceduto l’1,9%, con l’indice sotto i 13mila punti; peggio è andata a Parigi, crollata del 2,11%, e soprattutto a Madrid, giù del 2,4%). La Spagna resta infatti il secondo principale elemento di preoccupazione. Voci diffuse dal Financial Times avevano paventato la bocciatura della Bce al piano di ricapitalizzazione di Bankia, l’istituto che ha chiesto aiuti governativi per 19 miliardi di euro. La smentita è arrivata dalla stessa Eurotower: «Contrariamente a quanto riportano i media, la Bce non è stata consultata e non ha espresso alcuna posizione sui piani delle autorità spagnole per ricapitalizzare una delle principali banche spagnole. Siamo pronti a dare il nostro consiglio sugli sviluppi di un simile piano». Chi invece dispensa raccomandazione è la Commissione Ue.

Bruxelles invita l’Italia a rafforzare la lotta contro l’evasione fiscale e il lavoro nero, a incentivare la concorrenza nel settore energia e trasporti e ad adottare la riforma del mercato del lavoro in via prioritaria. E ieri pomeriggio, come trapela da fonti diplomatiche, c’è stata una conference call a quattro tra Monti, Merkel, Hollande e Obama per parlare di crescita in vista del G20 in Messico.

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