Il «vaffa» facile di D’Alema: da premier insultò pure l’Ansa

RomaD’Alema ha il vizio del «vaffa...». E dire che lo dipingono lucido, controllato, freddo fino al glaciale, imperturbabile. A torto. Lo scorso martedì sera a Ballarò schiumava di rabbia perché il condirettore del Giornale Alessandro Sallusti gli aveva appena ricordato che pagava un affitto irrisorio di un ente pubblico: «Vada a farsi fottere, bugiardo, mascalzone» e via insultando. Sul tema casa, sfrattati sia calma che sangue freddo. Un colpo di testa? Mica tanto, perché nel febbraio del 1999, in Russia, fece più o meno la stessa cosa con un giornalista dell’Ansa, reo di avergli rivolto una domanda scomoda. «Vaffanculo!» gli urlò in faccia l’allora presidente del Consiglio nel salone dell’ambasciata italiana a Mosca. Perché anche in quell’occasione baffino sbroccò manco fosse Balotelli?
Roberto Scarfone, all’epoca corrispondente dell’agenzia di stampa Ansa a Mosca, è un cronista sveglio e colto. Si avvicina al premier e domanda: «Scusi presidente, nel 1930 qui a Mosca aveva ragione Pietro Tresso e torto Palmiro Togliatti. Questo bisognerebbe dirlo, non trova?». In pochi sanno chi è Tresso tra le centinaia di persone presenti. Ma lo sanno bene sia Scarfone che D’Alema. Il quale dà di testa: «Ma vaffanculo!», grida. Tresso, uno dei fondatori del Partito comunista italiano, amico di Gramsci, a seguito della svolta stalinista del partito, fu espulso dallp stesso nel 1930. Bollato come trotzkista, venne assassinato in Francia da emissari di Stalin nel 1943, durante la Resistenza francese. Leggendario, nome di battaglia Blasco, Tresso fu falcidiato da Togliatti. Un’opinione in merito del premier diessino ci stava tutta. Ma invece di rispondere D’Alema sparacchia il «vaffanculo» nello sbigottimento generale anche perché lì in pochi capiscono la domanda. «Ma perché ha perso le staffe in quel modo?» si chiede il plotone di cronisti. Pochi secondi dopo il «vaffa» D’Alema sparisce tra gli uomini della scorta, appuntamento al giorno successivo. Che si apre così: «Avete torturato il presidente - dice in albergo ai cronisti il portavoce del lìder Massimo -, oggi mi raccomando di fare i bravi, visto che ieri sera uno di voi gli ha persino chiesto un’opinione su fatti accaduti nel 1930».
Insomma, guai a rivangare vicende del passato: a D’Alema saltano i nervi. È accaduto in Russia, è accaduto a Ballarò. Una vicenda su cui il falso freddo è tornato con una lettera all’Unità, obbligato da «messaggi critici e duri, a volte anche spietati». D’Alema lamenta: «Nonostante mi aspettassi la provocazione del condirettore del Giornale, ho reagito così perché il paragone tra due vicende che niente hanno a che fare tra loro (quella sua e quella di Scajola, ndr) mi è parso intollerabile». Poi spiega: «Non fui protagonista di nessuno scandalo ma, al contrario, fui l’unico protagonista della decisione di lasciare la casa che avevo legittimamente in affitto da parte di un ente previdenziale». Non spiega però perché, se non fu scandalo, allora traslocò. Né spiega, D’Alema, in che modo riuscì ad ottenere quell’appartamento a Trastevere, beffando una sfilza di sfrattati. Perché quell’alloggio faceva gola a molti, all’epoca: bello, grande, a equo canone, a due passi dal centro storico. Lui dentro, altri bisognosi, forse più bisognosi di lui, fuori. E non spiega neppure, D’Alema, chi all’interno dell’Inpdap gli ha dato l’aiutino affinché assegnassero proprio a Baffino quei 185 metri quadrati per 633mila lire al mese.

Detto questo, nella lettera all’Unità non v’è traccia di scuse al Giornale, anzi: «Sono dispiaciuto della mia reazione e di aver provocato involontariamente disagio in alcune persone, anche se quella che mi è stata fatta non era l’osservazione di un giornalista, ma una gratuita ed evidente provocazione».

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