Cronaca locale

Van De Sfroos: «Le mie muse? Ubriachi e contrabbandieri»

Antonio Lodetti

In America potrebbe essere un incrocio tra Bill Monroe (l’inventore del genere bluegrass) e un caustico Woody Guthrie moderno. Ma noi siamo diffidenti verso i cantori popolari e Davide Van De Sfroos ha fatto una lunga gavetta prima di esplodere. Frettolosamente catalogato come un fenomeno da baraccone made in Padania, è diventato il portabandiera di un linguaggio intenso, acre, satirico, cantato in dialetto comasco, la lingua dei «laghèe». Lui, il guascone che coniuga folk, poesia, blues e voglia di divertirsi, ormai è un fenomeno nazionale (l’ultimo album Aquaduulza è stato a lungo in classifica) ed è nel pieno del suo tour europeo. Ma stasera farà tappa al Mazdapalace all’interno della Festa dell’Unità.
«Amo Woody Guthrie e Johnny Cash, eroi popolari americani che cantano la vita con grande realismo. So bene che il blues e il folk non sono la musica indigena del lago di Como, ma io sono come una rete da pesca che cattura sempre qualcosa». Così Van De Sfroos rielabora alla sua maniera i linguaggi più diversi, ora giocando con l’arma dell’ironia e del colorismo etnico alla Bregovic, ora dando profondità alle canzoni con l’agreste pronuncia e la ruvidità del suo canto. («Immaginate Neil Young che canta con pronuncia chiara e pulita - dice -, perderebbe tutto il suo fascino»).
«Io non scrivo canzoni solo per il gusto di mettere in fila delle parole, per questo il pubblico mi ama. Per fortuna sono ancora in molti a cercare l’emozione nella musica. Provare a suonare buona musica oggi è quasi un reato: andrebbe tutelata come il tartufo nero». Van De Sfroos l’iconoclasta, lo scavezzacollo che non guarda in faccia nessuno ma finisce per piacere a tutti. «Per i puristi non sono certo un artista folk; per loro il folk è quello elegante dei Chieftains. Io sono un pescatore di pezzi di vetro, un bifolk che ama il blues di Robert Johnson e piange ascoltando De André e Gaber». Nel suo cuore c’è anche il cantore dei perdenti Tom Waits; non a caso lui ha riletto la waitsiana Frank’s Wild Years trasformandola in I ann selvadegh del Francu. Un brano che fa venire i brividi anche in dialetto, e poco importa che la tragica azione si svolga in Val D’Intelvi e non nella San Fernando Valley.
«Ognuno ha la sua percentuale di maledizione; Waits sulle strade della provincia americana, i rapper nei sobborghi di New York, io in mezzo ai monti coi contrabbandieri, i giocatori di carte, gli ubriachi e varia umanità che ispira i miei brani».
Il suo show oggi è un intrigante misto di momenti intimisti e cabaret, di poesia e blues, di cavalcate country e di ballate di protesta. Tra i suoi cavalli di battaglia l’ironica I cauboi (con il divertente attacco «I cauboi van giò a Milan con la cravata e la giacheta blu»), la tagliente Sciur Capitan, la ribelle Pora Italia e i pezzi più recenti (già dei classici) come Cara Madonna, elaborazione dell’Ave Maria di Schubert. Nelle sue canzoni c’è la sua anima. «Sono un disadattato politico, quindi uno che lotta per essere libero nel senso più totale del termine.

Mi sento vicino a Zachary Richard, il cantautore che suona il cajun nel dialetto della Louisiana».

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