Un nome non è solo un nome: la rivoluzione gentile di Francesco

Un nome è una dichiarazione d'intenti, è un manifesto programmatico, è il bandolo della matassa che svela il disegno

Un nome non è solo un nome: la rivoluzione gentile di Francesco

Un nome non è solo un nome, mai. È una dichiarazione d'intenti, è un manifesto programmatico, è il bandolo della matassa che svela il disegno. Jorge Mario Bergoglio lo sapeva bene quando, in quella sera romana di marzo, nella Cappella Sistina, pronunciò quelle parole: «Mi chiamerò Francesco». Fu un sussulto, uno scarto, uno strappo rispetto a una tradizione millenaria. Nessun Papa aveva osato tanto.

Francesco, il santo poverello d'Assisi. Francesco, il figlio di mercanti che si spogliò di tutto davanti al padre e al vescovo. Francesco, quello che parlava ai lupi e ai passeri, che chiamava fratello il sole e sorella la luna. Francesco, il folle di Dio che ricostruì pietra su pietra una Chiesa in rovina. Non era solo un nome, era un programma.

Questo mondo correva troppo veloce, troppo distratto, troppo accecato dal luccichio dell'effimero, dal chiacchiericcio del nulla, dall'arroganza del potere. Serviva un controcanto, uno spartito diverso, una melodia che sapesse di semplicità e verità. Bergoglio lo aveva capito prima degli altri. La Chiesa non aveva bisogno di principi rinascimentali avvolti in porpora e merletti, ma di pastori con l'odore delle pecore.

È il paradosso della storia: a volte il più radicale gesto rivoluzionario è tornare all'essenza, alle radici, alla purezza dell'origine. È come quando ti perdi nel bosco e l'unico modo per ritrovare la strada è ripercorrere i tuoi passi fino al punto di partenza. Ecco, Francesco d'Assisi era quel punto di partenza, quello zero assoluto della fede cristiana, quella follia evangelica che duemila anni di storia avevano sommerso sotto strati di convenzioni, compromessi e calcoli di potere.

La scelta di quel nome fu dunque il primo atto di un pontificato che avrebbe spiazzato tutti. I conservatori, che si aspettavano un Papa guardiano della tradizione. I progressisti, che volevano un riformatore ma secondo i canoni del politicamente corretto occidentale. Gli intellettuali, abituati a un Papa teologo come Benedetto XVI. I potenti, che vedevano nella Chiesa un partner diplomatico.

Invece è arrivato questo gesuita argentino dal fondo del mondo, questo figlio di emigranti italiani cresciuto nelle periferie di Buenos Aires, questo uomo dai tratti così comuni e dallo sguardo così profondo. E ha scelto di chiamarsi Francesco.

Era un messaggio chiaro, lanciato in un mondo che ha smarrito la grammatica dell'essenziale. Un mondo che confonde il valore con il prezzo, la felicità con il consumo, la libertà con il capriccio, la fede con l'abitudine. Un mondo dove le banche sono più importanti degli uomini, dove si muore di fame mentre si spreca cibo, dove si muore di solitudine in mezzo a miliardi di connessioni digitali.

Francesco d'Assisi era l'antitesi di tutto questo. Era l'uomo che aveva scelto la povertà non come condanna ma come liberazione. Che aveva trovato nella natura non una risorsa da sfruttare, ma una sorella da rispettare. Che aveva visto nei lebbrosi non dei reietti, ma il volto stesso di Cristo. Che aveva sognato una fraternità universale in un'epoca di guerre e divisioni.

E Bergoglio, scegliendo quel nome, stava dicendo al mondo che quel sogno era ancora valido, che quella rivoluzione gentile era ancora possibile. Che la risposta alla complessità del mondo moderno non era la complessità delle analisi, ma la semplicità del gesto. Lavarsi le mani, baciare i piedi, abbracciare i deformi, visitare le carceri, ascoltare i bambini, accogliere i migranti. Gesti semplici, quasi banali, ma rivoluzionari in un mondo di algoritmi.

C'è qualcosa di sovversivo nella semplicità. Qualcosa che scardina le logiche del potere e dell'apparenza. Qualcosa che mette a nudo le contraddizioni di un sistema che produce ricchezza e povertà con la stessa indifferenza. Qualcosa che richiama all'essenza dell'essere umano, al suo bisogno di senso, di bellezza, di verità.

È questa la rivoluzione francescana che Papa Francesco ha provato a portare nella Chiesa e nel mondo. Una rivoluzione che non ha bisogno di armi, di violenza, di imposizioni. Una rivoluzione che si nutre di gesti, di parole, di sguardi. Una rivoluzione che parla il linguaggio della misericordia in un mondo che ha dimenticato cosa significa perdonare.

Ma le rivoluzioni, anche quelle gentili, hanno i loro nemici. I farisei di ogni tempo, che preferiscono la lettera allo spirito. I mercanti del tempio, che vedono nella fede un business. I dottori della legge, che amano le formule più delle persone. Gli scribi, che catalogano la realtà senza mai sporcarsi le mani con essa.

Francesco, il santo poverello, li conosceva bene. Aveva dovuto combatterli anche lui, otto secoli fa. Aveva dovuto difendere la sua "follia" dagli attacchi dei benpensanti, dei pragmatici, dei realisti. Aveva dovuto spiegare che la vera ricchezza non è nell'avere, ma nell'essere. Che il vero potere non è nel dominare, ma nel servire. Che la vera sapienza non è nel calcolare, ma nell'amare.

E ora, in questo inizio di terzo millennio, un altro Francesco deve combattere la stessa battaglia. Contro le resistenze interne di una Chiesa a volte troppo innamorata di sé stessa. Contro l'indifferenza di un mondo che ha perso il senso del sacro. Contro la velocità di un tempo che non sa più fermarsi a contemplare.

È una battaglia impari, forse destinata alla sconfitta. Ma è proprio qui che risiede la grandezza del gesto: nella sua apparente inutilità, nella sua folle speranza, nella sua ostinata fiducia nell'uomo. Perché, come diceva Chesterton, un altro innamorato di Francesco d'Assisi, "il cristiano non è un ottimista, ma un entusiasta, anche quando è disperato".

La scelta di quel nome, Francesco, fu dunque un atto profetico. Un segno per i tempi a venire. Un invito a riscoprire quell'essenziale che si nasconde sotto la coltre dell'apparenza. Un richiamo alla bellezza della semplicità, alla forza della fragilità, alla ricchezza della povertà.

È la grande lezione del santo poverello, che oggi più che mai appare come una luce nel buio di un mondo smarrito. Una lezione che ci dice che l'importante non è avere di più, ma essere di più. Che la vera felicità non si trova nell'accumulo ma nella condivisione. Che la vera libertà non è nell'assenza di legami, ma nella capacità di donarsi.

Un nome non è solo un nome, mai. È un destino, è una missione, è una promessa. Francesco, il santo poverello, lo sapeva bene. E Jorge Mario Bergoglio, diventando Papa Francesco, ha mostrato di saperlo altrettanto bene. In un mondo di rumore, ha scelto il silenzio. In un mondo di apparenza, ha scelto la sostanza. In un mondo di complessità, ha scelto la semplicità.

È la rivoluzione francescana del XXI secolo, gentile ma inesorabile. Una rivoluzione che non fa rumore, ma che scava in profondità. Una rivoluzione che non ha fretta, perché sa che i tempi di Dio non sono i tempi degli uomini.

Una rivoluzione che, come quella del santo poverello otto secoli fa, parte da un gesto semplice: spogliarsi del superfluo per riscoprire l'essenziale.

Un nome non è solo un nome, mai. Soprattutto quando quel nome è Francesco.

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