Non è stato, o almeno non mi sembra sia stato, il solito due giugno: solenne, ufficiale, celebrativo, un po’ sonnacchioso, qualche volta svogliato. Ho avvertito, sia nelle cerimonie sia nella partecipazione di popolo, qualcosa di molto diverso. Una gran voglia di lasciar da parte i cascami della cattiva politica e i veleni della cattiva propaganda per dare invece sfogo a quel sentimento a lungo considerato fuori m oda che è l’amor di Patria. Avverto il rischio terribile che questa espressione comporta: il rischio cioè di cedere alla melassa buonista per cui è famoso e insieme famigerato il De Amicis di «Cuore», di essere scambiati per bolsi rètori. Ma anche le mozioni degli affetti di Edmondo dei languori hanno la loro legittima collocazione nelle ricorrenze nazionali.
Non sono più melassa, sono sostanza e coscienza. La coincidenza con il centocinquantesimo anniversario dell’Unità è stata senza dubbio d’aiuto per fare di quella di ieri una giornata particolare. A differenza d’altre festività civili, ad esempio il 25 aprile, è una giornata che non divide più. Il contrasto tra monarchia e repubblica, che ebbe connotazioni aspre e risvolti drammatici, è ormai inserito nel grande libro della storia, non suscita passioni e tensioni. Tutti gli italiani potevano riconoscersi senza sforzo in una data senza rancori. Eppure al due giugno è mancato troppe volte, insieme al rancore, anche il calore d’una emozione che davvero coinvolgesse il Paese. Sull’Italia è pesata, nei primi decenni dopo la Liberazione, una sorta d i complesso d’inferiorità per l’umiliazione della sconfitta.
In molte sedi e in molti salotti politici s’è preteso dì enfatizzare la Resistenza, quasi che fosse la sola luce onorevole in una storia che viene da molto lontano. Si son voluti appannare o attenuare la presenza, il ricordo, la riconoscenza per le Forze armate come espressione della nostra identità. Non occorre essere guerrafondai per capire che le uniformi, le bandiere, le parate non sono orpelli folkloristici, sono la rappresentazione simbolica di ciò che siamo stati, di ciò che hanno fatto i padri, i nonni, i bisnonni. Con l’impegno di eguagliarne i sacrifici, se ne siamo capaci. Ma da alcuni si è voluto, in una lunga stagione, che fosse politicamente corretto snobbare se non spregiare i ragazzi in divisa: quando la divisa non fosse il fazzoletto rosso.
Tranne che per le scalmane di qualche centro sociale, mi pare che quel tempo sia definitivamente passato o si stia allontanando: e non saranno certo alcuni sindaci di provenienza rifondarola a invertire una tendenza che mi pare acquisita. Che se poi avessero nostalgie per le loro radici ideologiche, la spontaneità e la dimensione del tributo di affetto alle Forze armate visto ieri dovrebbe bastare a imporre una calmata. Sono venuti alcuni segnali importanti dai rituali romani. Evito d’interpretare il numero delle delegazioni straniere come un’attestazione del successo d’un due giugno eccezionale. Nulla può rivaleggiare con il matrimonio di William e Kate.
Ma il livello delle presenze ha dimostrato concediamoci una volta tanto il lusso dell’autoelogio - che l’Italia ha una posizione importante nel consesso internazionale, e che le ricorrenze decisive del suo passato sono sentite, anche al di là dei confini, come passaggi altrettanto decisivi per l’Europa e per il mondo. Posso, da risorgimentalista inguaribile, rallegrarmi per il riconoscimento che così ha avuto la troppo vituperata Unità? Un altro segnale è secondo me questo: non è vero che gli italiani sono irrimediabilmente faziosi. Lo sono se le circostanze lo richiedono - e una contesa elettorale, come quella che ci siamo appena lasciata alle spalle lo richiede sempre - ma in determinati momenti ritrovano motivi comuni di coesione e di speranza.
Sono piuttosto allergico all’ottimismo, e non voglio ignorare, in queste righe che onorano le Forze armate, le molte perplessità che le missioni internazionali suscitano e il dolore per le perdite umane che ne sono derivate.
Ma a differenza del tempo in cui ai soldati, alla loro presenza, ai loro interventi si diceva n o per preclusione settaria, adesso i sì e i no sono più ragionati e posti, i più, sotto un denominatore comune. L’amor di Patria.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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