La vedova Litvinenko: «Voglio solo sapere chi ha ucciso Sasha»

Marina ha visto il documentario sul marito ex colonnello avvelenato dai servizi russi

La vedova Litvinenko: «Voglio solo sapere chi ha ucciso Sasha»

nostro inviato a Cannes

«Se ti uccidono un amico, che cosa fai? Cerchi di trovare l'assassino e farlo condannare. Il mio film nasce da questo intento. Quando ho cominciato a lavorare per il cinema e il teatro ho avuto la fortuna di conoscere Andrei Tarkovsky, di fargli da aiuto-regista ne Il sacrificio, e a lungo ho desiderato essere come lui, una figura non compromessa con il regime e decisa a difendere la propria libertà intellettuale, un aristocratico del pensiero, un individualista. Oggi penso che quel tipo di atteggiamento non sia più sufficiente: è un non voler vedere la realtà, distogliere lo sguardo da ciò che sta accadendo. Se Dostoevskij fosse vivo sarebbe un dissidente attivo, come già lo fu al tempo degli zar. Perché dopo la fine del comunismo e 15 anni di capitalismo, la Russia è di nuovo il Paese dei ricchi e dei poveri, dei boiardi e degli “umiliati e offesi”».
Andrei Nekrasov siede accanto a Marina Litvinenko, la vedova di Alexander «Sasha» Litvinenko, l'ex colonnello dei servizi segreti russi assassinato nel novembre dello scorso anno a Londra nell'orribile modo che tutti sappiamo, una tazza di tè piena di polonio 210, una sostanza radioattiva che corrode l'organismo dall'interno. Lei è una moderna bellezza russa, capelli biondi tagliati corti, un volto pallido e affilato, un'elegante camicetta bianca, una lacrima che ricaccia a fatica mentre ringrazia la stampa. Lui è un ragazzone nemmeno cinquantenne, un passato fatto di studi di linguistica e di filosofia, la passione per Pasternak, per il teatro e il cinema d'autore e un presente di agitatore culturale e di ribelle. E infatti Ribellione. Il caso Litvinenko si chiama il documentario che ancor prima di essere presentato a Cannes ha sollevato polemiche e illazioni. Così, il giornalista incaricato dalla direzione del Festival di moderare l'incontro con la stampa, mette subito le mani avanti: «Vi ricordo che questa è una rassegna cinematografica in cui si deve principalmente parlare di cinema. Vi sarei quindi grato se poteste evitare l'aspetto politico che nel documentario in questione è certamente presente». Fatica sprecata.
D'altra parte, preso in sé, Il caso Litvinenko non si discosta molto dal repertorio classico: interviste a scrittori, giornalisti, specialisti, registrazione filmata di dichiarazioni del protagonista e di alcuni momenti della sua vita privata, interventi di amici e colleghi in Russia e in Inghilterra. Anche le rivelazioni in esso contenute non aggiungono molto a quello che sul caso si è venuto nel tempo a sapere tramite i mass media e del resto lo stesso Litvinenko, con due libri, Blowing up Russia e The Gang from Lubyanka, proibiti in patria, ma di grande successo all'estero, aveva provveduto a raccontare la sua storia e la sua lotta. L'unico elemento cinematograficamente interessante è la visione sullo schermo della cerimonia privata, filmata da cameraman russi per l'archivio personale di Vladimir Putin, di un'occasione pubblica, la Legione d'onore concessa dall'allora presidente della Repubblica francese Jacques Chirac al suo omologo del Cremlino, la prima che un uomo politico russo abbia mai ricevuto. «L'ho avuta per un colpo di fortuna» dice Nekrasov, «e so che adesso è stata fatta sparire dalla circolazione. È emblematica dell'atteggiamento che l'Europa ha sempre avuto nei confronti del mio Paese, una fascinazione per la sua forza, l'errata convinzione di un'anima occidentale più intensa di quella asiatica, una sostanziale incomprensione della sua storia, della sua cultura, un certo razzismo intellettuale». Durante la lavorazione a Nekrasov degli sconosciuti hanno messo a soqquadro l'abitazione londinese, non portando via nulla, ma lasciando tutto fuori posto. Al di fuori di questo, né lui, né Olga Konskäia, produttrice e coautrice, hanno subito pressioni o ritorsioni. «Semmai lettere di congratulazioni, incitamenti ad andare avanti» dicono.

Nel Caso Litvinenko la figura di Putin campeggia minacciosa e inquietante. «Sasha» morì convinto che fosse stato lui ad armare la mano dei suoi assassini. Marina si limita a dire: «Voglio solo sapere chi è stato e perché». Non chiede poco.

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