Velasco e il suo Iran: «Ora parlo persiano ma niente politica»

Metti una sera a cena, Julio Velasco, nel suo Iran. «Mi hanno invitato per festeggiare l’inizio del Ramadan, sentirà l’eco della preghiera, in sottofondo». A 59 anni si sono spenti gli occhi di tigre, non guida più la Nazionale del Secolo che vinse tutto esclusa l’Olimpiade. Il calcio l’ha respinto, tra Lazio e Inter, stesso destino per l’ex rivale Gianpaolo Montali, a spasso dopo il quadriennio nel cda della Juve e le due stagioni alla Roma. Il coach argentino dal ’96 ha vinto poco: con Piacenza si fermò alle finali (scudetto e coppa Cev), il ritorno a Modena fu negativo. E così sverna a Teheran, alla guida della nazionale. Partito a metà aprile, è stato preceduto dal ct portoghese Carlos Queiroz, ex Portogallo, Sudafrica, Emirati e Real Madrid. Sottorete l’apripista di tutti è stato Francesco Biribanti, 35 anni, già alla Sisley Treviso, a Corigliano Calabro e in Montenegro: gioca nel Paykan Teheran, vincitore degli ultimi 6 titoli nazionali e detentore della Coppa d’Asia.
Gli unici altri stranieri sono un bulgaro e due brasiliani, il loro stipendio è di 300mila contro i 100 della media italiana. Velasco deve preparare i rossoverdi per le Olimpiadi, ha lasciato la Spagna per problemi di budget («il mio stipendio si mangiava il compenso di molti»), soprattutto in tre anni ha combinato poco, dopo l’Europeo vinto da Anastasi. «La prima scelta dell’Iran – rivelava Biribanti – era Silvano Prandi, ex Modena, poi hanno ripiegato su Velasco». Che da giovane, in Argentina, era iscritto al partito comunista: un fratello gli sparì per due mesi, alcuni loro amici furono uccisi. In Italia la sinistra avrebbe voluto arruolarlo, ha sempre rifiutato. «Figurarsi se accetto ora, qui. Non sono un collaboratore del governo». Là ci sono Ahmadinejad e la dittatura religiosa: «Lo sport rappresenta tutte le contraddizioni di un paese, si gioca per tutti». Musulmani sciiti, zoroastriani, ebrei e cristiani. Velasco apprende il persiano, aiutato dall’ex scoutman Paolo Giardinieri, conosciuto a Jesi nell’83, allo sbarco da noi. Il campionato iraniano è a 16 squadre, c’è pure l’A2. La World League non è andata bene, eliminazione per mano della Cina: normale perché il sestetto bianco-rossoverde si è qualificato tre volte per i mondiali, perdendo tutte le partite.
Ancora minore la tradizione della pallanuoto, nelle mani del genovese Paolo Malara, centroboa campione d’Italia a Pescara, già allenatore della Francia e dell’Italia, dal 2005 al ritorno di Campagna. «Chiesi il doppio dell’offerta – raccontava il neo ct, 51 anni – e un quadriennale. Alla firma presenziarono due donne come interpreti: all’ingresso della piscina mi salutarono, là non possono entrare; altre erano fuori, spalle alle vetrate». Portano il velo, il volto è scoperto, non il corpo. «La pallanuoto femminile non si gioca, io lavoro sulla tecnica, in particolare dell’Under 20 campione d’Asia. Ci alleniamo tre ore e mezza al mattino, due al pomeriggio».
Il regime vuole che lo sport iraniano primeggi in Asia.

Tre impianti costruiti ai tempi dello Scià sono ben conservati: il centro natatorio ha 4mila posti, il palasport 12mila, lo stadio 100mila. «Il paese è moderno – concludeva Malara -, anche se culturalmente diverso dall’Italia». La capitale ha 17 milioni di abitanti, inseguono successi sportivi grazie a quei tre ct tanto blasonati da sembrare fuori posto.

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