Veltroni cambia strada: non riconosce più i compagni

RomaLo slogan veltroniano «Si può fare» calza a pennello proprio al suo papà Veltroni. «Si può fare», per esempio, che proprio Walter scriva una lunga lettera a Repubblica, relegata nella pagina delle lettere, per elogiare con occhi lucidi i valori del vecchio Partito d’Azione. Com’erano belli e buoni quegli anticomunisti bravi, onesti, intelligenti e intellettuali; quelli che volevano la giustizia «ma anche» la libertà, in barba all’avviso di Benedetto Croce: se vuoi l’uguaglianza ti tocca rinunciare alla libertà. «Si può fare» che nel pistolotto di Veltroni (il fondatore del Pd, mica un altro), si parli del Pd come di qualcosa d’altro: «Rompere la corazza del conservatorismo, ovunque dissimulata, e avere il coraggio di un grande disegno, una visione che possa finalmente portare l’Italia fuori dai suoi eterni mali - scrive quasi commosso Walter -. Per me questo è stato e resta il grande compito dei democratici di questo Paese e del partito che con tanto colpevole ritardo si sono finalmente dati». Ma come sarebbe a dire «si sono finalmente dati»? Non era meglio «ci siamo finalmente dati»? O forse Veltroni non fa più parte del Pd? Sì, d’accordo, è stato messo da parte dai suoi nemici interni (D’Alema in testa) e dalla raffica di batoste rimediate. Ma sembra quasi che Veltroni non riconosca più la sua creatura. Sconfitto, l’eterno Paperino democratico si lagna che manca «lo spirito azionista», quella «voglia di volare» e cioè «cercare, sperimentare, innovare, cambiare». Dice che ha provato a volare, Veltroni, ma di fatto è precipitato al suolo come un Icaro qualsiasi. Lo spirito azionista non ha fatto breccia nel suo (ex?) partito forse perché s’è tradotto nel «maanchismo»: un accozzaglia di pro e contro, di destra e sinistra, di dolce e amaro, sputtanato in tv pure da Crozza («Vogliamo essere donne ma anche uomini, ma anche altro ma anche no»).
Sembra non esserci più spazio per Veltroni e il veltronismo: quel misto di buonismo e sogni obamiani, di Africa e di Usa, di camicie botton down e di ombrelloni piantati a Sabaudia, di Israele e Palestina, di Fidel Castro e Madre Teresa di Calcutta, di Enrico Berlinguer e Giovanni Paolo II, di Roberto Benigni e Fabio Fazio, di Vangelo e gay pride. Veltroni ha fatto flop ed è stato messo in cantina. Disse che se ne sarebbe andato in Africa ma poi non c’è andato; che avrebbe mollato la politica ma poi non l’ha fatto; che si sarebbe dimesso per «salvare il progetto al quale ho sempre creduto» e invece no. Parlando di Parri, Lussu e La Malfa si toglie un po’ di sassolini dalle scarpe e scarica i vertici della sua creatura che l’hanno scaricato.
Così come negli anni Novanta, uscito di scena il Pci, la «cultura azionista fu attaccata per colpire quella sfera di pensiero che con qualche approssimazione si potrebbe definire progressista», allo stesso modo oggi «quando l’innovazione e il riformismo provano a spingersi più avanti, verso il nuovo, si ritrovano affibbiata l’etichetta negativa di “azionismo di massa”». Peggio, sempre alla faccia del buonismo di facciata, graffia: «Si tratta, evidentemente, di tendenza alla conservazione». Lui sì, invece, che era avanti, progressista, sognatore.

Un sogno durato sedici mesi: iniziato al Lingotto nel giugno 2007, frantumato in piazza Sant’Andrea delle Fratte più o meno un anno fa. È lui l’azionista del Duemila: terribilmente astratto, moralmente intransigente, con i piedi per aria ma soprattutto irrimediabilmente perdente.

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