Veltroni intona il requiem per il Pd: "Cambiamo o sarà il fallimento"

Riuniti gli stati generali. Il leader: "Siamo un partito di gente perbene". Cresce la fronda anti-Idv: "Troppo diversi da noi. Così sembriamo l’Unione"

Veltroni intona il requiem per il Pd: "Cambiamo o sarà il fallimento"

Roma Tesi, antitesi e sintesi finale unanime: la direzione del Pd, convocata da Walter Veltroni nel pieno della tempesta di queste settimane, segue il copione di sempre. Lui, il segretario, intona il canto. L’altro, Massimo D’Alema, gli fa il controcanto infilando tra le righe critiche pesanti. Alla fine, come se nulla fosse, si vota tutti insieme.
C’è da dire, però, che dopo un anno di dispetti, sgambetti e messaggi trasversali attraverso i giornali, ieri il Pd ha vissuto il suo primo dibattito aperto e «fuori dai denti», come dice Nicola Latorre, in una sede politica ufficiale.
L’alternativa, per il Pd, è «secca e drammatica», avverte Veltroni aprendo i lavori. «O innovazione o fallimento». Il segretario difende con orgoglio la sua creatura: «Siamo un partito di persone per bene», e «per i disonesti non c’è posto nel Pd». Si ribella alla «immagine deformata e ingiusta» che ne dà l’informazione, atttraverso «il quotidiano bollettino delle inchieste». Avverte di essere «pronto a pagare anche un prezzo elettorale», pur di eliminare le mele marce. «Se non innoviamo, saremo travolti». E invoca il «ricambio» e annuncia di voler preparare «un forte avvicendamento con una nuova generazione». Nel frattempo, alla fronda interna chiede «maggior spirito di squadra», perché altrimenti il Pd «rischia di diventare come l’Unione, paralizzata dalle differenziazioni e che segava l’albero su cui era seduta». Quanto alle inchieste, Veltroni ribadisce la consueta «fiducia nella magistratura», che però deve saper usare il suo «grande potere» con una «grandissima responsabilità». Riforma della giustizia? «Non cambiamo linea», annuncia: se ne può discutere, ma va trattata con i magistrati. E Di Pietro? Nessuna rottura: «Siamo diversi e l’ho già detto più volte. Questo non significa che a livello locale non si possano trovare convergenze». La mozione con cui Marco Follini aveva chiesto di escludere «un’alleanza politica generale» con l’ex pm viene bocciato. Ma D’Alema si astiene.
Apre il dibattito la neodeputata Alessandra Siracusa, e i toni sono subito cupi: «raptus autodistruttivo» del Pd, «venticelli velenosi» che circolano all’interno, ma attenti che «dopo il Pd non c’è niente». Segue Alfredo Reichlin, e inizia il controcanto al nuovismo veltroniano: «Attenti a non esagerare con queste chiacchiere sul nuovo, perché se buttiamo a mare le nostre storie cosa resta?». Gianni Cuperlo attacca duramente il «giustizialismo populista» di Di Pietro, e denuncia il «deficit di autorevolezza» dei «nuovi» dirigenti dell’era veltroniana, l’eccesso di «cooptati per fedeltà». Latorre picchia duro anche lui su Di Pietro («Non mi spiego perché gli abbiamo regalato la guida della coalizione in Abruzzo») e sul «nuovismo». Chiamparino denuncia la «frammentazione correntizia, che diventa mero sistema di potere», il rischio che il Pd «non sia più percepito come uno strumento utile» e quello che dopo le Europee «salti l’idea costituente di Pd, e ognuno se ne vada per conto suo». Bersani demolisce «l’utopia distruttiva di un partito in presa diretta con la società». E si «stupisce dello stupore perché ci si è accorti che le primarie sono diventate delle microfeudalizzazioni». Si appella alla «solidità delle nostre radici» contro una «innovazione che non si sa cos’è». E infine interviene D’Alema col suo do di petto. Il Pd? «Un amalgama mal riuscito», magari il problema fossero le correnti: «Almeno ci sarebbe un ordine». Le attuali difficoltà non nascono dalle inchieste: «La questione giudiziaria diventa morale quando si associa a una crisi politica», per questo il Pdl (che non è in crisi politica) non ne risente. Berlusconi «ha un’idea di Italia, una gerarchia di interessi e di rapporti» che al Pd mancano. E se il Pd resta con Di Pietro «si condanna al minoritarismo». D’Alema respinge aspramente la «dialettica vecchio-nuovo» veltroniana: «se mai è dialettica onesto-disonesto».

Il problema è che «serve un partito vero», che sappia selezionare i dirigenti e «anche difendere chi va difeso». Se si vuol affrontare la crisi, oltre alla «innovazione serve anche autorevolezza». Che evidentemente manca.

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