Politica

«Veltroni non sa nemmeno mandare a casa un sindaco»

Roma«Nel 2005, quando sollevammo la “questione morale” nei Ds, non ci presero molto sul serio. Ma già allora si vedevano i fenomeni che ora esplodono».
Cesare Salvi, ex capogruppo della Quercia e ministro dei governi di centrosinistra, ha abbandonato i Ds nel 2007 con il Correntone, fondando la Sinistra democratica. E oggi osserva «senza alcuna soddisfazione» la crisi in cui si dibatte il Pd: «Purtroppo, le ragioni per cui mi opposi alla sua nascita sembrano confermate dai fatti».
Quali fatti?
«Il Pd soffre di assenza di identità politica e di forma partito definita. Nell’incertezza tra partito del leader e partito strutturato, è cresciuto sempre più il peso delle periferie dove comandano piccoli oligarchi locali».
I «cacicchi», come li ha chiamati Zagrebelsky?
«Qualcosa di ancor più vischioso, perché come si è visto a Napoli gli stessi sindaci non riescono a controllare neppure i propri assessori. Purtroppo c’è stata la totale sottovalutazione di un problema che avevamo visto arrivare, in Campania come in Calabria, e denunciato in un libro (Il costo della democrazia, Cesare Salvi e Massimo Villone, Mondadori, ndr). Non parlo di fatti penali, che spetta alla magistratura accertare, ma di un malcostume diffuso anche nel centrosinistra, e cattivi comportamenti amministrativi. Nel 2005, dopo le elezioni regionali, presentammo un ordine del giorno al Consiglio nazionale dei Ds. La prima firma era quella di Giorgio Napolitano, che era molto allarmato per quel che stava accadendo».
L’ordine del giorno, che chiedeva «sobrietà di comportamenti» e «rigore morale» dei governanti locali, fu approvato.
«Certo. Ma in verità non venne accolto con grande entusiasmo, e soprattutto non mi pare che ne siano state tratte grandi conseguenze. Non si sono affrontate le questioni di sistema che stanno dietro a quelle degenerazioni e che non possono certo essere semplificate nella contrapposizione tra “vecchio” e “nuovo”: nel Pd c’è Reichlin e ci sono anche gli assessori quarantenni rampanti. La corruzione c’è in tutto il mondo, pure a Chicago come abbiamo visto: la carne è debole, il problema è darsi delle regole per limitarla al massimo. Le responsabilità penali le accerta la magistratura, ma se fallisci politicamente devi andare a casa».
Invece il Pd non riesce neppure a ottenere le dimissioni della Iervolino...
«Manca la forza politica per imporsi su un sindaco e si usa la retorica degli “eletti dal popolo”. La Iervolino non è sfiorata da inchieste su di lei, Bassolino è rinviato a giudizio ma anche di Antonio non penso proprio che abbia preso soldi. Ma quando sei al capolinea politico, devi saper scendere, o qualcuno deve fartelo fare. Anche ridando la parola al popolo, se serve. Altrimenti finisce che i governanti li sceglie la magistratura, e non è rassicurante».
L’alleanza del Pd con Di Pietro è stata un errore?
«La verità è che Walter si era illuso che fosse possibile il pareggio. I sondaggisti aveva fregato anche lui, come noi della Sinistra arcobaleno: ci davano al 6%... E Di Pietro gli serviva per pareggiare. Ora lascino perdere la discussione sulle alleanze, tanto si vota tra quattro anni. Si preoccupino piuttosto di chiarire la propria linea: Di Pietro ruba consenso anche per la mancanza di identità del Pd. Lui almeno dà delle risposte chiare, anche se spesso non condivisibili».
Il Pd no?
«C’è lo sciopero Cgil e che fa? Può dire è sbagliato, oppure può aderire. Invece fa un po’ e un po’ e il segretario resta neutrale. E sulla bioetica? Il governo prende quelle iniziative gravissime sul caso Englaro, e il Pd non fiata. Sul Pse non decidono. Sulla giustizia non possono aprire bocca: la separazione delle carriere, per dire, secondo me è una riforma liberale e garantista che andrebbe fatta, a patto di garantire assoluta autonomia ai magistrati. Ma il Pd è sotto botta, non può muoversi. Sono bloccati, inchiodati al silenzio.

E da uomo di sinistra sono veramente preoccupato».

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