Il Veltroni Pride è già finito, Walter riempie la piazza ma si risveglia senza linea

Il piano. Dopo la sbornia del Circo Massimo democratici con il mal di testa: il segretario sfida le correnti, ma i vecchi leader vogliono farlo fuori. Anche il fido Tonini lo spinge a lottare contro le vecchie nomenklature

Il Veltroni Pride è già finito, Walter riempie la piazza ma si risveglia senza linea

Roma C’è chi, come il Foglio di ieri, lo ha ribattezzato «W Pride», mettendo insieme la W di Walter e la giornata dell’Orgoglio. Omosessuale nel caso originario, veltroniano nel caso del 25 ottobre.
E ce ne era bisogno, dopo mesi di via crucis: all’indomani del Circo Massimo, raccontano gli amici e i collaboratori più vicini al leader, Veltroni sembrava ritemprato, ringiovanito di sei mesi (quelli passati dalla campagna elettorale), rinvigorito come Popeye dopo gli spinaci. Così ringalluzzito da dirsi pronto a fare quel che finora non gli era riuscito: sfidare gli «oligarchi» interni, seguire i consigli di chi tra i suoi sponsor , da Goffredo Bettini a Giorgio Tonini, lo incita a lasciarsi alle spalle le «vecchie» nomenklature e i loro condizionamenti.
Con l’obiettivo di eliminare il senso di precarietà che aleggia attorno alla leadership di Veltroni, depotenziare il passaggio delle elezioni europee della prossima primavera e assicurare al capo del Pd un orizzonte di legislatura. Al termine del quale, nel 2013, sarebbe ancora lui il candidato premier del Pd.
Per preparare il terreno il leader Pd deve sventare quel «pericolo mortale» che Tonini descrive così: «Si continua a logorare Walter fino alle Europee, si usa un risultato men che entusiasmante per buttarlo giù senza neppure avere qualcuno con cui sostituirlo, e si rischia di far saltare l’intero progetto del Pd». Di qui al congresso del prossimo anno, Veltroni deve costruirsi una propria squadra di dirigenti «che non siano degli ex», dice Tonini, che non siano ex Ds o ex Margherita, e quindi giù per lì rami fassiniani o dalemiani, mariniani o rutelliani, perché negli apparati di quei partiti Veltroni ha sempre pesato poco.
Roba seria, scelte forti e di lungo respiro. Poi, in verità, il test di questo mutamento genetico prende il nome di «caso Migliavacca», il che potrebbe anche depotenziarne un po’ la portata, ad occhi poco specialistici. Migliavacca, però, esiste veramente, risponde al nome di Maurizio, è uno stimato dirigente emiliano del vecchio Pci, poi Pds, Ds e ora confluito nel Pd; era stato messo a capo dell’Organizzazione da Piero Fassino, allora segretario, e oggi è il candidato di sintesi distillato da una complessa alchimia dalemian-fassinian-mariniana, in chiave anti-bettiniana e quindi anti-veltroniana, da affiancare a Beppe Fioroni a capo della macchina organizzativa e del tesseramento democrat per depotenziare lo scomodo coordinatore Bettini. E per completare la equa spartizione tra ex Pci ed ex Dc del controllo sulla «ciccia» del Pd. Una storia che certo non può essere raccontata alla folla festante del Circo Massimo, e che troverebbe il suo giusto rilievo nella rubrica «Chi se ne frega» di Cuore, se ci fosse ancora Cuore, ma che oggi è il primo banco di prova dell’efficacia degli spinaci del 25 ottobre.
Migliavacca a parte, sulla strada di Veltroni restano non pochi ostacoli da superare. C’è il complicato rapporto con Di Pietro, che non si può certo rompere ma che bisogna provare ad invertire. I veltroniani dicono che un passo avanti c’è stato, con il fatto che l’ex Pm è andato al Circo Massimo come a Canossa, «riconoscendo che la leadership dell’opposizione è la nostra». Ma in realtà in Abruzzo, ad esempio, Di Pietro continua a imporre il proprio candidato presidente, ed è il Pd che deve decidere se piegare la testa o andare da solo alla sconfitta. Sulla Rai, al di là dei proclami di facciata, la speranza veltroniana è che Berlusconi abbia interesse a stringere un patto col leader del Pd sui posti che contano. E anche sulla riforma della legge elettorale per le Europee, in molti dentro e fuori il Pd sospettano che la «dura opposizione» annunciata dal Pd alla proposta hard del centrodestra (sbarramento al 5%, liste bloccate e niente preferenze) sarà più di facciata che vera. Perché in fondo è perfettamente funzionale agli interessi del capo del Pd quanto a quelli di Berlusconi, e consentirebbe a Veltroni non solo di dettar legge sui candidati, di imbarcare Verdi e socialisti, come farà, ma anche di mettere in difficoltà lo stesso Di Pietro. E di sperare, evitando la dispersione di voti sulle liste minori (Prc compreso) di doppiare di slancio il 30% dei consensi.
In più, c’è anche la difficoltà di dare al partito e all’opposizione una linea che sia al tempo stesso «dura verso il governo ma propositiva verso il Paese». Sulla scuola, ad esempio, non si può cavalcare tout court la protesta, dimenticando lo «sforzo riformista» e la necessità di riqualificare la spesa. «La Gelmini ha ragione quando dice che nella scuola non si spende poco ma si spende male», ammette Tonini, che assieme a Enrico Morando e Claudio Novelli ha curato anche i delicati passaggi del comizio veltroniano di sabato sull’argomento.

Che quelli del Circo Massimo fossero due milioni e mezzo come hanno sparato gli organizzatori, seicentomila come ha detto Franco Marini a Repubblica o quattrocentomila come sosteneva (più acido) il dalemiano Roberto Gualtieri, erano comunque tanti. Ma le manifestazioni passano e i partiti restano, e la strada del Pd e del suo leader è ancora lunga.

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