Saper perdere è una conquista. Un segno di maturità, in tutti i campi. Di solito si fa prima a offendersi, risentirsi, strepitare per la lesa maestà. Una malattia tutta italiana. Nel calcio, contestare gli arbitri. Ai festival del cinema, lapidare le giurie. Alla Mostra di Venezia da poco conclusa cerano quattro film italiani in concorso e, a giudicare le ventiquattro opere in gara, cerano anche due registi italiani (Gabriele Salvatores e Luca Guadagnino) su sette membri, presidente compreso. Totale: zero premi, comè noto. E il verdetto brucia ancora, certo che brucia. Però chiedersi comè successo e comè stato possibile non è previsto. Meglio accusare; e dire che Tarantino e i suoi giurati sono prevenuti. Meglio continuare a «tirarsi pietrate, a guardarsi in cagnesco», ha sintetizzato Gabriele Muccino, stigmatizzando la polemica «sconfortante, mortificante e non produttiva». Prima è toccato a Martone, autore di Noi credevamo, tre ore e mezza di sussidiario alternativo sul Risorgimento. Poi a Bellocchio, più disinteressato perché fuori concorso con il suo Sorelle Mai. Due interviste una dietro laltra in perfetto stile provincial-primadonnista per rimbrottare le motivazioni di Gabriele Salvatores alla batosta. Le pellicole italiane non hanno superato la prima soglia di gradimento per poter concorrere a qualche premio, aveva rivelato il regista di Mediterraneo. «Il problema è stato di emozioni e di scrittura cinematografica. In Italia», aveva suggerito il giurato «noi registi abbiamo due padri importanti, la commedia allitaliana e il neorealismo. Forse, proprio come accade nella vita vera, bisogna superarli, uccidere i genitori, come si dice in psicanalisi».
Fuori dal gioco perché non a Venezia Muccino ribatte di non aver «mai sentito lesigenza di uccidere nessun padre. Per me i padri sono il sale, il concime e il fertilizzante che deve permetterci di essere, di crescere e di migliorare quello che loro hanno fatto». Ma la replica più piccata viene da Martone, per il quale quelle di Salvatores sono «parole offensive» espresse in modi «così aggressivi» perché frutto del «senso di colpa» di non essere stati capaci «di favorire la comprensione della complessità». Quindi: «Non prendo lezioni e voti da Gabriele Salvatores», è stata la sentenza finale. Drastico anche Bellocchio: «Parole del tutto insensate». Per il regista di Vincere, i quattro film italiani sono migliori del mediocre Somewhere risultato vincitore. E dunque, verdetto rigettato. Un po come già avvenne nel 2003 sempre a Venezia, quando presidente era Mario Monicelli, Stefano Accorsi siedeva in giuria e il suo Buongiorno, notte, rilettura con finale onirico del sequestro Moro, non ottenne il Leone doro. Offesissimo, Bellocchio abbandonò il Lido prima della cerimonia di chiusura e delegò il povero Luigi Lo Cascio a ritirare il «premio per un contributo individuale di particolare rilievo», ideato apposta in deroga al regolamento.
Insomma, trovare una ragione al «perché i nostri film non riescono a superare i confini» come invece accadde due anni fa a Cannes con Il divo e Gomorra, è uno sforzo che i nostri cineasti non vogliono fare. Sarà per la prossima batosta.
Forse.