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Venga a leggere un caffè da noi

Un libro fotografico ripercorre l’epopea dei nostri locali storici, dal Settecento agli «american bar»

Quando entriamo in un bar per consumare una tazzina di espresso, non ci viene di certo in mente di pensare alla sua origine o all’importanza dei caffè sorti dovunque in Europa in una memorabile stagione. Eppure ripercorrere la storia dei caffè ci consente d’individuare il profilo sociale, l’ambiente, il clima delle città in cui sorgevano. Attorno ai quei locali ruotava, infatti, l’atmosfera culturale e politica del tempo, come veniamo a sapere dalla lettura del prezioso volume di Riccardo di Vincenzo Milano al Caffè. Tra Settecento e Novecento, pubblicato dall’editore Hoepli e che sarà presentato domani alle 18 alla Terrazza Martini, con la presenza dell’autore e l’intervento della scrittrice Marta Boneschi.
Curatore di due precedenti pubblicazioni edite da Archinto - un inedito di Danis Diderot, Mystification (2001), e Scrittori italiani al caffè (2003) - Di Vincenzo ha impiegato oltre due anni a scrivere, con una passione e un impegno che traspaiono in ogni pagina, una dettagliata ricerca sui caffè milanesi, risolvendo le non poche difficoltà per reperire pregevoli immagini fotografiche nelle quali appare una Milano inedita e straordinariamente bella. Gli antichi caffè di Milano si chiamavano Gnocchi, Verri, Caffè dei servi, Commercio, Duomo, del Teatro, dell’Orto, delle Sirene, del Cappello, Hagy, Madera, Mazza, dell’Accademia e nella prima metà dell’Novecento Olimpia, Eden, Jamaica, Martini, Cova, Taveggia, Campari, Camparino, Magenta, Biffi, Marchesi, Gambrinus, Savini, ma elencarli tutti sarebbe troppo lungo.
«I caffè sono stati per la borghesia, a differenza dell’aristocrazia che riceveva nei “salotti”, una sorta di casa alternativa per socializzare, un luogo dove si discuteva di letteratura, politica, dei fatti del giorno, dalle vicende personali, utile per raccogliere informazioni (non mancavano le spie, gli avventurieri, gli approfittatori), oltre che per lenire la solitudine e dimenticare i dispiaceri nell’alcool», spiega l’autore.
Tra i pregi del libro, una ricca panoramica di aneddoti gustosi. Mussolini che lasciò insoluto il conto nel celebre caffè Jamaica, nel quartiere di Brera, dove si recava a fare colazione ogni mattina (ma forse nel 1922 aveva altri impegni...) o le parole del librettista Fulvio Fulgonio, che rispose in milanese al proprietario del locale che rifiutava di servirlo per i debiti contratti in precedenza: “Mi dia almeno i soldi per andare a bere il caffè da un’altra parte”.
A Milano esisteva il caffè del Duomo, aperto nel 1840, il più letterario della città una vera e propria sala di lettura, tanto che per non far rumore le ordinazioni venivano fatte a cenni... «Come si sa, in tutta Europa molti scrittori prediligevano i caffè anche per scrivere. A Milano, nel Settecento ci sono stati i locali frequentati dagli Illuministi lombardi - Piero e Alessandro Verri, Cesare Beccarla, Luigi Lambertenghi, a cui si deve il periodico chiamato proprio Il caffè - e, nell’800, gli Scapigliati come Emilio Praga, grande amante della bottiglia, che prediligevano il Gnocchi e l’Hagy. Al caffè si radunavano i giornalisti, quando a Milano esplosero i quotidiani nella seconda metà dell’800. I caffè erano divenuti una sorta di redazione con tanto di macchina da scrivere e a volte scoppiavano delle liti furibonde che provocavano duelli. Nel ’900 infine Marinetti, Guido da Verona, Marco Praga andavano quasi ogni sera al Savini, caffè e ristorante allo stesso tempo. Non dimentichiamo inoltre che, nel dopoguerra, al Jamaica di Brera Luciano Bianciardi scrisse La vita Agra e nei caffè del quartiere si vedevano Ennio Flaiano, Achille Campanile, Orio Vergani e molti altri...».
E il peccato entrò anche nei caffè. «Per breve tempo, tra la fine dell’800 e il 1915, l’epoca dei caffè-concerto e dei caffè Chantant. Qui le ballerine, le kellerine, come venivano chiamate dal tedesco keller, “cantina”, non disdegnavano l’interesse dei clienti facendoli però bere il più possibile. Il capostipite dei caffè-concerto fu il Salone Morisetti, ai margini dei Giardini pubblici di porta Venezia». Poi l’epoca dei caffè finì.

«Dopo la prima guerra mondiale l’invenzione della macchina per l’espresso aprì la strada al bar, in inglese “banco”, dove si poteva bere la bevanda rapidamente, o seduti sugli sgabelli rotondi degli american bar». Un mondo che ormai è tramontato.

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