La vera democrazia è un’eventualità che non si verifica

Gentile Granzotto, mi dia lei, se può, una risposta che spieghi almeno in parte il quotidiano trionfo dell’assurdo che mi lascia senza parole; perché più passa il tempo, più mi domando in quale sporco imbroglio siamo finiti noi italiani. Mi ritrovo alla soglia dei trent’anni a constatare che la Costituzione altro non è, qui da noi, se non l’arma attraverso cui la nostra volontà viene assiduamente «calpesta e derisa», nell’eterno riprodursi di quella realtà che l’Inno di Mameli ci sbatte crudelmente in faccia. Mi domando se vi sia mai stato, nella storia di questo Paese senza storia, un momento in cui i cittadini hanno davvero stretto fra le mani la propria sovranità; e se così è stato, quanto dovremo attendere prima che essa ci venga resa? Presumo non si possa continuare su questa strada in eterno: prima o poi anche le pietre si accorgeranno che in Italia, tra la Repubblica e la Democrazia esiste un abisso che da sempre rende vuota la prima e inesistente la seconda. Dovrei forse insultare me stesso, e definire democratica una nazione il cui «capo» non riconosce ai cittadini, a quasi settant’anni dalla fine di una dittatura, nemmeno il diritto di scegliersi i propri governanti? Finché la parola «fine» non verrà scritta su un così turpe sistema di cose, continueremo a essere automi da romanzo fantapolitico, e a bearci di mezze libertà che di noi fanno tutto fuorché un popolo di liberi.
Casarano (Lecce)

La democrazia, governo del popolo, è solo una bella parola, caro Pacella: come tale non alligna in nessun angolo del mondo e meno che mai in Italia. Quella che si seguita a chiamare democrazia è nella migliore delle ipotesi una oligarchia. Un governo dei (soliti) pochi che da noi è in un certo senso codificato dall’articolo, di altissima portata antidemocratica, della Costituzione «più bella del mondo». Il 67: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Ciò significa che, appena eletto, il parlamentare cessa di rappresentare chi lo ha eletto per essere da lui rappresentato. Recidendo così il filo che altrimenti terrebbe unito e ben saldo l’ordinamento della democrazia rappresentativa: popolo - rappresentanti del popolo - governo del Paese. Dal momento in cui, quando varca il portone del Senato o di Montecitorio, l’eletto dal popolo risponde dunque solo alla «nazione». Una entità astratta, una addizione turbolenta di volontà non sempre e anzi quasi mai concordi, che non solo è del tutto estranea al concetto di democrazia, ma nel contesto democratico non significa niente. Tant’è che i padri costituenti hanno sentito il bisogno di indicare non nella nazione, bensì nell’«unità nazionale», che molto significa, la rappresentanza del Capo dello Stato. Tant’è che la giustizia, per fare un altro esempio, è amministrata in nome del popolo italiano, non della nazione italiana. Questi presupposti hanno poi ispirato una lettura «creativa» dell’articolo 88 della Costituzione, assegnando al primo cittadino il ruolo, ove naturalmente ci siano i numeri, di ribaltare la volontà popolare favorendo governicchi all’insegna dell’ammucchiata e che certo non corrispondono alle indicazioni espresse nell’aprile del 2008.

Per essere più chiari: di sicuro, l’elettorato non ha dato il consenso a Fini e alla sua parte perché nel bel mezzo della legislatura si ritrovassero culo e camicia con i compagni progressisti. Procedere non tenendo conto di ciò significa forzare, fin quasi a stravolgerla, ciò che s’usa definire democrazia.

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