
In Italia c'è una categoria di scrittori rarissima: quelli che nella vita hanno lavorato. Saranno tre o quattro, giuro. Laddove per lavorare s'intende lavorare sul serio, sporcarsi le mani, alzarsi presto e fare fatica tutto il giorno. Fatica fisica. Operai, per esempio, o artigiani, o contadini. Agire sulla materia, combinare qualcosa di concreto. E per di più, scriverne.
Uno dei migliori era Vitaliano Trevisan, autore fra l'altro di un capolavoro, Works, libro autobiografico su tutti i mestieri svolti nella vita, anche i più umili, come il portiere di notte e il commesso di gelateria. Era un geometra ed era stato assunto in studi di architettura, poi aveva preferito imparare la professione di lattoniere. Si è suicidato nel 2022, a 62 anni.
Proprio da lui comincia Bregola nel suo Lezioni dalle rovine - Leggere, scrivere, vivere (Avagliano editore, pagg. 160, euro 16). Quattro incontri con scrittori e poeti che lo hanno segnato, e che lui ha cercato, scovato, incontrato e conosciuto nell'arco di una trentina d'anni, eleggendoli tra i suoi maestri. Quattro outsider, come lui del resto. In inglese c'è un termine bellissimo per descrivere chi vive appartato dal mondo: reclusive. Rinchiuso, ma volontariamente, avendo esercitato la libertà di farlo. Che poi al limite è la stessa libertà di abbandonare questa esistenza.
Nell'epoca esibizionista che viviamo, dove agli autori è chiesto di essere piazzisti della propria opera (e alcuni ci riescono benissimo, soprattutto quelli che non hanno impiegato il loro tempo a realizzarne una), pensare che un poeta arrivi addirittura a seppellire i suoi scritti in giardino, o che si rintani in qualche casupola nei boschi, sprezzante delle occasioni autopromozionali, senza correre dietro al pubblico, è difficilmente credibile. Quando invece è l'antitesi dell'umiliazione. Per esempio: comincia adesso la carovana dei premi letterari estivi, dove gli scrittori sono trasportati in giro per le piazze, esibiti come scimmie ammaestrate, a favore di un popolino anestetizzato, ridotti a figurine che ripetono le lezioni imparate a memoria. «Di cosa parla il suo libro?« chiederà l'assessore, e loro sulle sedioline, sul palchettino, a rispondere compunti, a riassumere un'opera in sette minuti e mezzo. Scodinzolanti, trepidanti di ricevere il premio, o almeno il contentino. Che tristezza.
Avremo nostalgia di essere stati a Massa il 26 aprile, alla festa della casa editrice Transeuropa del coraggioso Giulio Milani, con Veronica Tomassini, fragile e forte, vibrante come la sua scrittura, Ugo Marchetti, Ray Banhoff, e pittori giovani e creativi, musicisti, esordienti entusiasti e non ancora disincantati. C'era perlappunto anche Bregola, a parlare di questo memoir, degli incontri avvenuti giù nella Bassa, come quello con Umberto Bellintani, che abitava a Borgo di San Benedetto Po, faceva l'orto dove seppelliva le sue poesie scritte sui sacchetti di carta del pane, e stava al bar a giocare a briscola tra una spuma e un bianchetto. O in luoghi fuori mano e dai nomi immaginifici, come Crespadoro (ultima dimora di Trevisan). Il poeta Ivano Ferrari, mantovano, aveva fatto il macellaio, poi era diventato vegetariano e si guadagnava da vivere come bibliotecario. E Marosia Castaldi, che era nata a Napoli e poi andata al Nord, in un ristorante di Modena spezzava il pane con le mani secche e grigie, prossima alla scomparsa dal mondo. Qui Bregola, a guardare quelle mani, sente «quanto fosse stato utile aver lavorato molto con le chiavi inglesi, gli ingrassatori, le sabbiatrici, la smerigliatrice, i cacciaviti Stanley, i trapani Hilti, la classe sociale subalterna e un mucchio di morchia».
L'autobiografia sovrappone alla fatica di guadagnarsi il pane l'allegria di vivere in un mondo vero, tra gli argini e la sabbia del fiume, di condividere le ore con filosofi avvinazzati e donne di provincia dal corpo dinamico e slanciato come quello di certe sudamericane, femmine dall'erotismo istintivo. Il piacere di ascoltare le storie altrui, sotto le frasche di salice. Una vicinanza con la natura, o meglio con la sua parte più concreta e gioiosa. «Il lavoro in ferrovia mi insegnava a restare basso», scrive ancora Bregola. Stare a contatto col mondo, che poi è quello che gli scrittori dovrebbero fare, mica girare su sé stessi e sorvegliarsi a vicenda. Ma vabbè, in compenso tutti gli scrittori e poeti che si trovano in queste pagine hanno qualcosa di visionario e disperato. Forse hanno visto troppe cose. Adesso sono tutti morti, ma già allora era come se guardassero nell'aldilà.
L'autore di questo libro parla di un sé ragazzo, immerso in una cisterna di latte irrancidito, o in rimessa a scrostare la merda da sotto i vagoni, o vagante di soglia in soglia a cercare di vendere novità editoriali, o in un
centro di salute mentale ad assistere malati psichiatrici che mettono sulla carta parole in libertà per straparlare di vite immaginarie.Anche con la pagina bianca ci si sporca le mani, quando si ha qualcosa da metterci sopra.
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