La vera sfida ai ballottaggi? Moderati contro estremisti

Milano ha stagioni ricche di pazienza riformista ma anche momenti di rabbia radicale: le prime hanno fatto grande la città. Le seconde (per restare nel Novecento: dalla lotta a Giovanni Giolitti, al sostegno alla Grande guerra, al fascismo, al Sessantotto e ancor più al Settantasette, a Mani pulite) hanno provocato gravi guasti a tutta la nazione. Letizia Moratti in continuità con Gabriele Albertini rappresenta un’opzione riformista: così il suo piano di infrastrutturazione organizzato con l’Expo 2015, il piano di governo del territorio che aumenta strategicamente l’offerta di verde senza paralizzare la città. La capacità, poi, di affrontare le emergenze (dall’immigrazione al contrasto dell’islamismo radicale, dalla lotta alla criminalità diffusa a quella della droga) organizza il consenso necessario anche per affrontare concretamente le scelte più generali.
Difetti in questa azione riformista? Sicuramente. Una certa idea di risolvere i nodi cittadini astrattamente invece che con il pacato confronto con la società, a partire dalla componente fondamentale dei commercianti. Anche la meritoria tensione al dialogo è stata talvolta risolta affidandosi a personalità radicali piuttosto che definire una linea su cui successivamente cercare il confronto: con il risultato che protagonisti della politica morattiana sono divenuti leader dell’alternativa, a partire da Stefano Boeri. Sono errori di generosità liberale determinati anche da un ceto politico ancora segnato dalla cesura nel 1992.
Il primo turno però ha indotto a una riflessione la Moratti e da qui importanti svolte: a partire dall’idea di una squadra più radicata, capace di una più autonoma e più compiuta idea della città su cui meglio dialogare innanzi tutto con le forze popolari. L’impostazione generale, la capacità di reggere l’emergenza e l’intelligenza nel rimediare ai propri limiti confermano la potenzialità modernizzatrice di una nuova giunta Moratti.
Mentre allo schieramento opposto guidato da Giuliano Pisapia manca innanzi tutto il minimo di un’anima riformista: a partire dal suo asse centrale cioè la saldatura tra schegge di ribellismo senza quasi più popolo con il radicalismo di settori sprezzanti della borghesia e delle élite, non prive talvolta di capacità tecnocratiche ma incapaci di dialogo con la città popolare. A questa miscela radical-estremistica si aggiungono poi anche un po’ di «momias», mummie rancorose che rivendicano tardivi protagonismi. Non si avvertono proprio i sentimenti di riformismo che pure la sinistra interpreta in tante città: da Torino a Bologna, da Firenze a Salerno. L’unica emozione che sa articolare la coalizione pisapiana è la trasformazione di malumori sulla Moratti (e Silvio Berlusconi) in un’indignazione senza contenuti rivestita da desideri di cambiamento senza sostanza. Tanto è vero che quando questa coalizione ragiona di questioni concrete deve partire dalle proposte della giunta Moratti (dall’Expo al Pgt), però aggiungendo percorsi imprecisati di «perfezionamento» che finiranno solo per bloccare la città.
Non è necessario essere fanatici della Moratti per capire che Milano non può permettersi radicalizzazioni. Ci aspettano momenti duri (chi non lo capisce, dia una guardatina non solo ad Atene ma anche a Madrid dove ha operato un simil-Pisapia come José Zapatero).

Senza dubbio la giunta uscente può apparire non sempre e non del tutto adeguata. Ma mentre sulla sua concreta ipotesi di unificazione di una città si può procedere, sotto la spinta del radicalismo si determina solo una disgregazione che in momenti difficili può diventare devastante.

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