Verne, l’esploratore che viveva in una stanza

«Perché non andate a Bombay come il mio eroe, Phileas Fogg?», chiese Jules Verne (1828-1905) alla sua graziosissima ospite. Nelly Bly, la giovane giornalista inviata da Lord Pulitzer, nel 1889, a mettere in pratica il Giro nel mondo in ottanta giorni, aveva notato il disordine artistico dei lunghi capelli bianchi di Verne e il contrasto tra il colorito sano e il candore della barba. Sotto le folte ciglia, gli occhi scuri brillavano di un’energia confermata dalla vivacità dei gesti e delle parole.
Nelly rimase però stupita dalle esigue dimensioni dello studio del romanziere, il locale più piccolo della casa, che faceva anche da camera da letto. Era una stanzetta spoglia, arredata da una poltrona di cuoio e da un largo tavolo, pieno di manoscritti ordinatamente disposti, coperto da un tappeto verde. Il mappamondo era uno di quelli dati in omaggio agli abbonati alla serie dei Grandi navigatori del XVIII secolo. Dalla grande finestra si vedeva la ferrovia. Le macchine avevano sempre affascinato Verne. «Guardare una macchina a vapore o una locomotiva in marcia mi dà lo stesso piacere che contemplare un quadro di Raffaello o del Correggio». Dietro spuntava un lettino da campo stretto e basso, «una specie di branda soldatesca» lo definì Edmondo De Amicis, che l’aveva intervistato a lungo.
Se avesse osservato meglio il padrone di casa, Miss Bly si sarebbe accorta che zoppicava leggermente. La menomazione non era frutto di un incidente avventuroso, ma di una tragedia familiare. Tre anni prima, mentre rientrava, Jules aveva sentito alle sue spalle due detonazioni che aveva scambiato per petardi. Sentendo un forte dolore alla gamba sinistra, si era girato e aveva visto un giovanotto stravolto con una pistola in mano. Solo gradatamente aveva riconosciuto Gaston, il nipote ventinovenne, affetto da mania di persecuzione.
La notizia del ferimento aveva occupato le prime pagine dei giornali. Il pazzo venne internato in manicomio, dove continuava a ripetere, di volta in volta, di aver sparato per attirare l’attenzione sullo zio e farlo finalmente entrare all’Académie française, o di aver cercato di ucciderlo perché era talmente buono che bisognava farlo andare subito in paradiso.
Verne aveva sofferto molto perché voleva bene al nipote, ma solo una pallida eco dell’aggressione affiora in Un dramma in Livonia del 1904. D’altronde anche i suoi rapporti con il figlio Michel erano gravemente disturbati. Benché alcuni eroi di Verne - dal corriere dello zar all’astronauta - portino lo stesso nome, il romanziere aveva sempre cercato di reprimere il carattere ribelle del figlio prima con la severità di un collegio religioso e poi nel manicomio del celebre dottor Blanche, il medico di Maupassant. Dissipatore e bevitore, irriverente e vanitoso, Michel resisteva a ogni tentativo. «Questo ragazzo è di una perversità precoce», si lamentava il padre, prima d’imbarcarlo come mozzo su una nave in partenza per l’India. Forse non aveva dimenticato la sua fuga su un battello, a undici anni, per portare alla cugina, di cui era innamorato, dei gioielli di corallo; l’avventura era stata sventata da un tempestivo intervento del genitore. Mentre Verne componeva Un capitano di quindici anni, il figlio sedicenne scriveva, affranto, alla famiglia chiedendo di tornare. \
I giornalisti che andavano a trovarlo scoprivano che il creatore di tanti esploratori era un sobrio vegetariano, che alle tre esatte di ogni pomeriggio beveva un bicchiere di latte in pasticceria. Il resto del tempo lo passava principalmente in quella palazzina Luigi Filippo di mattoni rossi, al numero 2 della solitaria della rue Charles-Dubois, in un placido quartiere signorile. La gente era convinta che Verne lavorasse nella torre che dominava la costruzione, ma non era così, anche se bisognava attraversarla per arrivare al modesto studio, al secondo piano.
L’edificio contava quattro piani. Al pianterreno c’erano la sala da pranzo, quella da musica, un salottino e il giardino d’inverno, al riparo dalle intemperie. I mobili della sala da pranzo, sotto il cupo soffitto a cassettoni, erano nello stile neogotico caro agli intellettuali del XIX secolo. Un lampadario di bronzo dorato, luccicante di cristallo, dominava la stanza della musica. Sotto, il divano e le sedie di palissandro stile Luigi XV, risalenti in realtà appena al Secondo Impero, fronteggiavano il pianoforte Gaveau a un quarto di coda. La cucina, le stanze della servitù e la scuderia erano nell’ala sinistra dello stabile \.
Anche se niente affiorava in superficie, quella quiete veniva a volte messa alla prova. A incrinarla, nel 1870, era stata una giovane donna, forse la russa dai begli occhi grigi e malinconici che traduceva i suoi libri. In quel periodo l’autore, che aveva sempre criticato i rumori e la mondanità di Parigi, aveva moltiplicato le sue visite nella capitale. Parlando con Hetzel si descriveva sempre assorto nella redazione della sua Storia dei grandi viaggi, «tranne che a Parigi, dove arrivo sempre furens amore, e da dove riparto nello stesso stato d’animo. Oh! Natura!». Nelle sue missive pregava l’amico di scrivergli che la sua presenza in città era indispensabile, «il che, del resto, è vero». Un giorno, appena arrivato ad Amiens dalla capitale, aveva deciso di ritornarvi col suo yacht, che aveva ormeggiato in piena Parigi.
Malgrado le sue evasioni, Jules rimaneva un borghese dell’Ottocento. «Se, incontrandolo senza conoscerlo, m’avessero dato a indovinare la sua condizione, avrei detto: un generale in riposo, o un professore di fisica e matematica, o un capo di divisione di ministero: non un artista», aveva notato Edmondo De Amicis. L’autore di Cuore era rimasto stupito dall’assoluta semplicità dei suoi modi, dall’evidente sincerità delle sue parole e del suo sguardo. Freddo e malinconico con gli estranei, Verne si rasserenava appena vedeva un amico. Eppure la piega amara della bocca contrastava con la fisionomia cordiale del viso e la gente si chiedeva cosa potesse inquietare quell’uomo di successo. Certo l’Académie française tardava ad aprirgli le porte e gli seccava essere considerato solo un autore per ragazzi, ma c’era qualcos’altro che lo tormentava. La letteratura a volte sembrava insufficiente ad appagare il suo desiderio d’evasione. Tuttavia non poteva smettere di scrivere. «Ho bisogno di lavorare. Il lavoro è diventato per me come una funzione vitale. Se non lavoro non mi pare di vivere». Componeva dalle cinque alle undici. «Lavoro molto lentamente e con grande cura, scrivendo e riscrivendo, finché ogni frase non prende la forma desiderata». La prima stesura, a matita, veniva ripassata a penna dopo le correzioni. «I lettori sono i miei passeggeri ed è mio dovere fare in modo che siano trattati bene durante la traversata e soddisfatti al ritorno». Poi passeggiava zoppicando, in attesa del pranzo. Tormentato dall’ansia non aspettava gli altri per mangiare e un giorno, irritato da un ritardo, aveva divorato da solo l’intero pasto. «L’ozio», si lamentava, «è un tormento per me».
Nel pomeriggio consultava i giornali e correggeva le bozze nella silenziosa biblioteca della Società industriale. In seguito passava alla Cassa di Risparmio, di cui era stato nominato amministratore, e infine tornava a casa per ricevere i visitatori. Non rimaneva molto tempo, appoggiato al camino, alle serate di lettura o di giochi organizzate dalla moglie. Ma, se qualcuno lanciava un tema interessante, usciva con piacere dall’abituale laconicità. D’altronde per lui coricarsi alle dieci significava rinunciare a due ore di sonno. Infatti quel produttore infaticabile si coricava in qualsiasi stagione alle otto \.
Aveva progettato di descrivere tutto il globo terrestre nelle sue pagine.

«A vent’anni viaggiare era il mio ideale; avendolo potuto realizzare solo parzialmente, mi sono messo a viaggiare nell’immaginazione, e, dopo Phileas Fogg che ha fatto il giro del mondo in ottanta giorni, tra poco l'avrò fatto io in ottanta volumi». Ma gli mancavano ancora molte regioni. «Ne avrò il tempo?».

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