Spettacoli

Il vero principe di Canosa sotto la sua leggenda nera

Fu un reazionario ma non uno sgherro dei Borbone. I suoi scritti politici ne svelano l'afflato filo-popolare

Mentre stava studiando, durante la prima metà degli anni venti, la storia del Regno di Napoli Benedetto Croce si imbatté nella figura di Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, giovane «ammiratore» di «alcuni fossili del passato» il quale aveva avuto il coraggio di sostenere i diritti degli aristocratici, si era schierato per l'ortodossia cattolica e non aveva voluto aver nulla a che fare con la Massoneria. Questo personaggio, per lui un po' donchisciottesco, Croce lo raccontò in un profilo contenuto nel secondo tomo dei suoi Uomini e cose della vecchia Italia, il quale, per molto tempo, fu l'unico segno importante di interesse storiografico per un uomo che, ai suoi tempi, ebbe un certo peso sia nella vita politica sia nella cultura politica.

Attorno alla figura del principe di Canosa, infatti, venne creata una vera e propria «leggenda nera» che lo avrebbe presentato come prototipo del reazionario più retrivo e come uomo di efferata crudeltà. Tale leggenda, il cui inizio risale alla pubblicazione della Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, ha condizionato la maggior parte degli storici. Ciò almeno fin quando uno studioso di formazione liberale, Walter Maturi allievo di Michelangelo Schipa ma cresciuto alla scuola di Croce, Gentile e Volpe , pubblicò un'ampia e documentata biografia, Il Principe di Canosa (Le Monnier, 1944), che, pur non agiografica, resta tuttora un punto di riferimento per una corretta conoscenza. Il Maturi si è rivelato, fra gli storici «ufficiali», un caso isolato talché la memoria del Principe di Canosa è rimasta quasi esclusivamente appannaggio di ambienti nostalgici e filo-borbonici. I quali, peraltro, hanno fornito alla ricerca contributi pregevoli e hanno messo a disposizione testi e documenti di difficile reperimento, utili sia per rettificare giudizi consolidati frutto di conformismo ideologico sia per chiarire episodi controversi.

La pubblicazione, in questo contesto, dell'opera omnia del Principe di Canosa, prevista in otto tomi, a cura di Gianandrea de Antonellis, è una iniziativa coraggiosa e lodevole. Ne sono usciti, presso l'editore Solfanelli, i primi tre volumi con titolo Saggi politici (pagg. 336, 360, 312, euro 25 a volume), che raccolgono, preceduti da presentazioni critiche e arricchiti di note, i testi di natura più propriamente politica e teorica redatti dal Canosa fra il 1796 e il 1837. Accanto a lavori molto conosciuti, anche se forse poco o male letti, come il pamphlet I piffari di montagna (1820) o le polemiche Riflessioni critiche su Colletta (1834), sono raccolti testi che teorizzano l'istituzione monarchica o analizzano il fenomeno della decadenza della nobiltà o, ancora, ribadiscono l'utilità della religione cristiana anche ai fini della stabilità sociale e politica: un corpus importante di materiale, insomma, che consente di inserire a pieno titolo il Principe di Canosa in quel Pantheon di pensatori politici reazionari dei quali Stefano Verdino ha offerto una buona silloge in un ponderoso tomo antologico, La buona causa. Storie e voci della Reazione in Italia (Nino Aragno Editore, 2017).

Rampollo di una delle famiglie di più antica nobiltà del Regno di Napoli, Antonio Capece Minutolo (1768-1838) aveva compiuto studi di filosofia a Roma e, rientrato poi a Napoli, si era immerso nella vita mondana conducendo, come avrebbe in seguito riconosciuto, una esistenza da gaudente «pirronista e semiateo». Impressionato dagli eventi rivoluzionari e influenzato dalla lettura di autori controrivoluzioni come Augustin Barruel, egli si trasformò in convinto sostenitore del trono e dell'altare e divenne un critico feroce dell'illuminismo, delle massoneria, delle idee repubblicane e giacobine.

Già nei suoi primi scritti teorici, individuò, come Stato ideale, un modello di monarchia tradizionale, fondata sui cosiddetti «corpi intermedi», segnatamente l'aristocrazia e il clero, e contraria, quindi, a ogni deriva di tipo assolutista. Nella sua visione il rapporto organico e di «mediazione» fra monarca e società era garantito proprio da quella nobiltà della quale egli si sentiva parte e che, anche storicamente, aveva dappertutto rappresentato un baluardo dialettico alla degenerazione assolutistica.

Nel celebre scritto polemico contro il Colletta, egli accennò, parlando di sé, alla funzione mediatrice dell'aristocrazia fornendo una plastica immagine della sua idea del binomio trono e altare: «Sono plebeo per genio perché sono cattolico romano per convincimento. Non ho mai corbellato il popolo dandogli ad intendere (come praticano, per ingannarlo, i demagoghi) che esso era il sovrano di diritto, che potea far tutto ciò che gli gradiva, che sarebbe stato ricco ed eguale a' più gran signori dopo la rivoluzione, con tutte quelle altre minchionature ed inganni, che verso il popolo usano i falsi liberali: l'ho per altro amato di cuore, l'ho soccorso quando ho potuto, e con tutti quei mezzi che poteano essere alla mia disposizione». Non fu un caso che all'epoca della Repubblica Partenopea egli, che si era battuto per un governo aristocratico, fosse stato arrestato e condannato prima dai giacobini e poi dal Re. Illuminante, in proposito, il commento di Croce: «se i repubblicani avevano punito in lui il realista, i realisti punivano in lui l'aristocratico, cioè i due elementi che egli bensì componeva armoniosamente nella sua antiquata personalità spirituale, ma che la storia aveva scisso e messo in contrasto».

Oltre che saggista e scrittore il Principe di Canosa, fu anche un uomo politico che operò in posizioni di rilievo. Per due volte, all'indomani della Restaurazione e dei moti liberali, nel 1816, prima, e nel 1821, dopo, fu Ministro di Polizia (cioè Ministro degli Interni) e scatenò quella dura politica repressiva che spinse il Colletta a definirlo «ubbriaco di vino e di furore» e a cucirgli addosso i panni della «leggenda nera». In realtà, l'azione politica del Canosa, poi sacrificato e fatto allontanare dalle pressioni di ambienti a lui ostili, fu certo rigida e rigorosa, ma meno efferata di quel il Colletta volle far credere. Essa si sviluppò nel pieno di quella Restaurazione codificata nel Congresso di Vienna, portando avanti una linea che, fedele a una concezione legittimista e ortodossa, contestava la «politica della conciliazione o dell'amalgama» secondo la quale non avrebbero dovuto essere toccati i quadri della burocrazia e dell'esercito che si erano affermati e consolidati grazie aa appoggi e simpatie rivoluzionarie, bonapartiste e murattiane. Quella politica fu espressione di una solidità di principi il cui rigore teoretico era superiore al presunto «reazionarismo» del principe di Metternich che aveva avuto formazione illuministica e basava la sua azione politica sul concetto di equilibrio.

La lettura degli scritti politici del Principe di Canosa mostra come egli sia stato davvero una delle voci più importanti e più significative del pensiero tradizionalista e reazionario italiano. Lo fu, per ampiezza di produzione e profondità specultativa, al pari, per esempio, di Luigi Taparelli d'Azeglio, fondatore di La Civiltà Cattolica; ovvero dell'intransigente Clemente Solaro della Margherita, autore del Memorandum storico politico (1851) e protagonista del libro di Salvator Gotta Addio, vecchio Piemonte (1970); o, ancora, di Monaldo Leopardi, il quale, lamentando come scandaloso il silenzio attorno alla sua morte, definì il Canosa «un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano».

Parole, del padre del grande poeta, che suonano come un'epitaffio riparatore.

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