Al vertice di Davos un frullato di parole

Sono bastati pochi giorni di relativa tranquillità sui mercati mondiali del debito per far dimenticare le urgenze ai potenti della terra e quindi far loro terminare il magniloquente forum di Davos con un gran frullato di parole ma nessuna decisione veramente significativa. Il mondo dell’economia governata si comporta quindi come quel malato che guarda con timore la medicina cattivissima appoggiata sul comodino e, sperando di non doverla prendere, si aggrappa ad ogni minima discesa della febbre per illudersi di essere guarito, salvo poi essere costretto ad ingollarne il doppio quando la temperatura risale più di prima.
Appare ormai chiaro a tutti che le decisioni vere in Europa possono essere prese solamente con la pistola alla tempia, altrimenti, quando le acque sembrano relativamente tranquille, ogni idea radicale per risolvere il problema del debito è destinata a fallire per i veti incrociati di qualche governante, che teme di non poter spiegare ai suoi elettori il perché debbano saldare un conto che in teoria non spetta loro. In realtà un sistema economico è un meccanismo assai complesso e sta in piedi su un equilibrio di molte variabili che, se lasciate libere di oscillare, tendono ad autocompensarsi. Una delle principali valvole di sfogo delle disuguaglianze fra le economie dei diversi Stati è la moneta: in condizioni normali la valuta dell’area debole perde valore rispetto alle altre e la svalutazione funge da cura, incentivando i consumi interni e rendendo più competitive le esportazioni. Chi ha progettato l’Unione Europea ha imposto una carrozzeria rigida (l’Euro) a realtà ancora troppo diverse pensando che questa soluzione avrebbe imposto a tutti di correre alla stessa velocità. Quello che è successo invece è che, senza l’equilibrio della svalutazione, le differenze fra gli Stati alla prima difficoltà seria sono esplose, gli scricchiolii sono paurosi e ora si sta tentando di risolvere il problema con il nastro adesivo invece che con una sosta ai box e ripensamento del progetto.
Fra i corridoi di Davos i commentatori più attenti scuotono la testa: l’analista Stefan Schneider di Deutsche Bank ad esempio non riesce a pensare ad una soluzione che faccia contenti tutti, stante l’evidente intransigenza di Germania e Francia nel prendere in considerazione soluzioni sistemiche quali l’emissione di Eurobond (come proposto da Tremonti) o un’inflazione “pilotata” con la Bce che ricompri il debito monetizzandolo, soluzioni che, inevitabilmente, li vedrebbero in parte pagare per ripianare le debolezze degli altri. La verità però è che anche gli Stati forti si sono cacciati in una situazione che non si può risolvere senza danni probabilmente peggiori. Se la zona euro “sganciasse” qualche Stato troppo debole il problema di credibilità sarebbe molto pericoloso: i mercati sono severi e nessuno vuol comperare una macchina che perde i pezzi. Gli investitori si domanderebbero quale sarebbe il prossimo a staccarsi e starebbero alla larga. Una fuga in avanti della Germania invece (un po’ come il motore che schizzasse fuori dal cofano) costerebbe assai di più ai tedeschi in termini di rivalutazione dell’ipotetico “nuovo marco” e di dazi sui mercati di quanto potrebbe mai costare loro qualsiasi salvataggio.

Il risultato di questa situazione è che i piloti della macchina europea, fra una tartina e una cena a Davos, preferiscono continuare a guidare la macchina che scricchiola pregando che vada ancora un po’ avanti, miracolosamente riparandosi da sola o almeno tirando avanti quel tanto che basta per passare la guida a qualcun altro. Le decisioni vere sono rimandate alla prossima crisi.

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