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"Vi racconto la casta dell'Arcigay"

Nardini, direttore del primo sito d’informazione omosessuale denuncia le magagne dell’associazione non profit: "Rimborsi spese alle stelle, numero di iscritti gonfiato, sgravi fiscali alle discoteche"

"Vi racconto la casta dell'Arcigay"

Daniele Nardini ha 29 anni e da 11 ha la tessera di Arcigay. Per anni è stato volontario del circolo della sua città. Oggi è direttore editoriale di Gay.it, il sito di informazione sulla comunità omosessuale più letto in Italia. Da mesi sta pubblicando un’inchiesta a puntate sulla gestione dell’associazione: spulciando i bilanci e girando per i circoli, si è accorto che «qualcosa non va».
Partiamo dai numeri. Cos’è che non va nel bilancio?
«Basti pensare che il 15% di tutti i ricavi di Arcigay, quasi il 25% delle spese di struttura, se ne va per viaggi e spese dei quattro massimi dirigenti: 107mila euro, quasi 9mila euro al mese. Non male, per un’organizzazione senza fini di lucro, che pure investe altri 60mila euro in stipendi».
A chi vanno quei soldi?
«Nel bilancio non viene indicato, l’abbiamo chiesto ad Arcigay ma non ci è arrivata risposta».
Siete 170mila iscritti. Cosa dice la «base»?
«Intanto non è vero che siamo 170mila. Arcigay, per aumentare il suo “peso specifico” rispetto alle altre associazioni, conteggia anche i 60mila ex soci che negli ultimi due anni non hanno rinnovato la tessera, e che in un circolo Arcigay oggi non possono nemmeno entrare. E poi, il meccanismo del tesseramento è molto strano».
Perché strano?
«Arcigay è divisa in due aree: i 50 comitati, dove si fa politica e volontariato; e il circuito ricreativo, 64 locali tra discoteche, pub e saune. Fino a qualche anno fa c’erano due tessere distinte, una politica e una ricreativa. Ora le hanno unificate, e chi entra in una discoteca diventa automaticamente militante, senza saperlo».
Perché le discoteche gay, invece di essere normali pubblici esercizi, sono affiliate ad Arcigay?
«Per due motivi. Primo, perché l’Italia è l’unico paese occidentale in cui una legge contro gli “atti osceni in luogo pubblico” obbliga i locali gay a far entrare solo i tesserati. Secondo, perché così i gestori approfittano di enormi sgravi fiscali: non devono fare scontrini, non devono presentare un bilancio. Così pagano molte meno tasse dei locali concorrenti. Anche se non è che per questo offrano prezzi più bassi: l’ingresso nella più famosa disco gay di Bologna costa 15 euro, più 15 di tessera, più 9 per ogni consumazione e due di guardaroba».
Arcigay però rivendica un ruolo fondamentale nella prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Anche grazie alle campagne nei locali.
«Per molti anni è stato così. Ma dopo l’inversione di tendenza, da quando gli etero sono più colpiti dall’Aids dei gay, l’attenzione della comunità omosessuale è scesa drasticamente. E oggi solo in pochi locali gay si distribuiscono preservativi. Sempre in quel locale bolognese, il “boccione” distributore è stato installato solo un mese fa. Questa è la cosa più grave che emerge dalla mia inchiesta: Arcigay non può permettersi di abbassare ancora il livello di guardia, che oggi tra gli omosessuali è già ai minimi storici».
Un lettore ha commentato sul sito: «Ma i panni sporchi non si lavavano in famiglia?». Le giro la domanda: perché ha voluto rendere pubblico cosa non funziona nella sua associazione?
«Per una semplice constatazione: in 28 anni un’associazione grandissima, con oltre cento circoli affiliati da Ragusa a Bolzano, non è riuscita a portare a casa nessun risultato politico concreto. E nonostante presidenti vip come Grillini, centinaia di cortei e comparsate nei media, l’Italia è ancora l’unico paese in Europa senza alcuna legislazione sulle coppie omosessuali, insieme ad Albania, Bulgaria, Romania, Polonia e Grecia».
Negli anni, però, Arcigay ha sostenuto ben 32 diversi progetti di legge in materia.
«Evidentemente c’è un problema di strategia. Col governo Prodi la partita fu gestita in modo pessimo. Arcigay accettò senza fare una piega tutte le proposte che arrivavano, dai Pacs ai Dico ai Cus, senza rendersi conto che quella maggioranza non avrebbe mai trovato un accordo. La realtà è che in Italia nessun governo, di destra o di sinistra, riuscirebbe da solo ad approvare una legge che riconosca le coppie di fatto. L’unica strada è cercare in Parlamento un’intesa ampia, che vada al di là degli schieramenti».
È quello che hanno provato a fare i ministri Rotondi e Brunetta, annunciando un’iniziativa parlamentare per i «DiDoRè», «diritti e doveri di reciprocità dei conviventi». Nemmeno questa proposta ha avuto un seguito.
«Del resto Arcigay ha annunciato da subito un’opposizione incondizionata. Improvvisamente l’associazione è passata alla linea massimalista: o matrimoni gay, o niente. Al di là di come la si pensi nel merito, non servono sondaggi o ragionamenti di alta politica per registrare che il matrimonio gay non è un obiettivo realistico».
Insomma, perché Arcigay non funziona?
«Ma lo sa che non si riescono a mettere d’accordo neanche sulla data e sulla città dove fare il Gay Pride? L’anno scorso ne hanno organizzati cinque, in competizione. Però qualcuno forse i suoi conti li sa fare. Mentre Arcigay promette ai congressi di restare “distinta e distante” dai partiti, molti suoi leader intraprendono brillanti carriere politiche. Nel 2001 in tre sono finiti in Parlamento: Grillini coi Ds, Silvestri coi verdi e la De Simone con Rifondazione. Il presidente succeduto a Grillini, Lo Giudice, è consigliere Pd a Bologna. Dopo di lui è arrivato Mancuso, e puntualmente alle politiche si è candidato con la Sinistra Arcobaleno.

Solo dopo una settimana, quando ha scoperto che per statuto avrebbe dovuto dimettersi da presidente di Arcigay, si è ritirato dalla campagna elettorale».

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