Pubblichiamo alcuni stralci dell’ultimo libro di Vittorio Sgarbi, «Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri» (Bompiani, 360 pagg, 20 euro). «Non leggerete in questo libro di particolari teorie sulla tutela dell’arte, ma della consapevolezza piena dei nostri tesori che troppo spesso sono guardati con insufficiente importanza, anche nei luoghi più piccoli - scrive l’autore -. Quasi ogni due chilometri, infatti, girando l’Italia, è possibile ammirare, perfino nei luoghi apparentemente più degradati, spettacoli meravigliosi. Ed è questa quantità di cose misconosciute che rappresenta il percorso dell’Italia dei desideri che è proprio, come dice il concetto, il paese che uno vorrebbe sperare ci fosse. E che c’è, se hai la pazienza di scoprirlo». Insomma, l’Italia è un meraviglioso teatro dove, scrive sempre Sgarbi che immagina il suo viaggio nel nostro paese come la sceneggiatura di un reality show, «solo il sentimento della continua bellezza potrà esserti di guida in quello che non potrai desiderare di vedere in una vita».
SAVONA
Per capire che a Savona Tuccio d'Andria si trovava bene basta guardare la tavola con lo Sposalizio
mistico di Santa Caterina fra i Santi Pantaleo, Pietro martire,
Pietro, Bonaventura e Gerolamo, ora nel museo della Cattedrale: una
fiera di Santi d'ogni specie, ben protetti nel loro recinto perché
niente potesse in alcun modo contribuire ad arricchire o a influenzare
il loro carattere. Questo dipinto è così festoso, che tra cherubini,
ghirlande, uccelli di varia natura, coralli, ornamenti, intarsi
marmorei, sembra di sentirlo suonare, animato da una musica di cui la
vivezza dei colori è il più eloquente corrispettivo. Ma Tuccio eccelle
nelle notazioni realistiche, nelle mani grosse di San Pietro o nella
mano molle di Santa Caterina che il Bambino afferra come per non
lasciarla mai più; e poi nei ritratti del committente e della sua
famiglia. Piccoli, brutti e un po' deformi, tutti con il naso all'insù
per vedere i loro attori preferiti, pronti eccezionalmente a esibirsi
qui a Savona. L'aspetto li rivela infallibilmente della stessa
famiglia di Pippo Franco.
LUCCA
Sentivo talora rammentare il nome di Ilaria. Chi era dunque Ilaria?
Un nome sospetto che non mi sembrava appartenere alla letteratura,
non al Poliziano amato, non al Tasso, neppure al Metastasio. Un nome
quattrocentesco: e non di un'artista, ma di una persona familiare,
frequentata, presente. Poi essa si dotò di un cognome, e mi suonava
sempre più forte dentro: Ilaria, Ilaria, Ilaria... del Carretto...
ancora più sospetto, traballante, plebeo. Eppure, tutto insieme: Ilaria
del Carretto, insolitamente poetico. Questo lungo nome, già quasi
come un verso, abitò dentro di me molto prima che non l'immagine cui
si riferiva e il nome del suo inventore. Quando mi incuriosii di lui
non mancò di piacermi, così arcaico e saldo come suonava: Jacopo della
Quercia. Poi partii, forse prima di averne osservato una riproduzione,
una libresca immagine in bianco e nero: e fu la prima volta che vidi
nella pietra qualcosa di simile alle parole, che riconobbi non la
bellezza di un'immagine, ma la possibilità che essa potesse abitare
in un'immagine, calarsi nel marmo e scaldarlo più che fosse carne.
NINFA
Ninfa,
per quanti da Roma e non solo da Roma si sono spostati verso sud,
evoca non la mitologia delle ninfe, o le ninfe di Mallarmé o di Debussy
che sono nella letteratura e nella musica,
bensì una città. Una città abbandonata, un paradiso dove natura e
architettura stanno insieme e l'architettura è diruta. Chiese gotiche,
quello che Brandi chiamava «il rudero», ecco Ninfa, luogo a cui io
indirizzo la vostra curiosità: per chi lo conosce e per chi non lo
conosce. Con l'invito a un viaggio partendo da Roma in meno di un'ora
per arrivare a Sermoneta e di lì andando nel paese di Cisterna di
Latina, rovinato da un'amministrazione che appunto non avendo la
coscienza del bene - che è l'unico valore che coincide con il bene di
tutti -invece pensa che chi amministra può fare quello che vuole (...)
Tanto più questo appare assurdo, perché è un bene di tutti essendo un
Comune e quindi le piazze sono state inquinate da questo architetto,
quando uno va tre chilometri più in là a vedere una frazione di Cisterna
che è Ninfa, che appunto è proprietà privata di una fondazione, la
Fondazione Caetani, nella quale si entra con limitato accesso di
pubblico ma che comunque è aperta al pubblico ed è un paradiso
meraviglioso che è possibile vedere perché un privato lo conserva con
tutte le garanzie di tutela di ciò che la storia ci ha
consegnato,senza l'abuso di un sindaco che invece pensa di poter fare
quello che vuole nel paese che amministra. Cisterna di Latina è
l'inferno rispetto a quel paradiso che è Ninfa. Paradiso privato di
proprietà ma aperto al pubblico. E chi non lo ha visto dalle mie parole
spero che tragga l'entusiasmo per partire e andare a vederlo.
TREIA
Chi avesse gustato il profondo piacere di scoprire Treia - magari
finendovi per caso nel corso di un viaggio verso un'altra
destinazione - avrà certamente avuto l'impressione di vivere un evento
del tutto singolare. Treia ci appare come
un incidente miracoloso e miracolante, qualcosa di inatteso e di
sorprendente, qualcosa a mezza strada tra la percezione della realtà
oggettiva e la dimensione atemporale della visione. Si cerca di
comprenderla facendo appello alle nostre conoscenze, di leggere ciò
che ci si presenta agli occhi per metterlo in relazione con quanto
sappiamo, ma non serve a molto. Valadier, artefice come nessun altro
della «forma urbis » di Treia, è irriconoscibile rispetto
all'architetto del Duomo di Urbino o di Piazza del Popolo a Roma: qui
geniale convertitore delle vivacità rococò nelle prime cadenze
neoclassiche, lì rispettoso applicatore di un codice tutto dedito
all'esaltazione dell'ufficialità e dell'evocazione di un grandioso
passato. Alla fine ci rassegniamo, sentiamo che non potremo capire fino
in fondo. Treia è un piccolo universo a parte, contiguo al nostro ma
irrimediabilmente diverso da esso; è un esperimento
di «armonia mundi» che brilla di luce propria, un ideale che si è
voluto benignamente mischiare con la contingenza dell'ordinario. Ci sarà
sempre qualcosa di Treia che sfuggirà alla nostra logica, alla nostra
ossessiva voglia di classificare, di normalizzare, di ridurre tutto
a uno schema omogeneo e unitario. Chiamatela magia, suggestione o
come altrovolete.L'importante è ammetterne l'esistenza.
RAGUSA
Sono passati più di vent'anni da quella giornata, credo di
settembre, in una Ragusa diversa da quella che oggi rinasce nelle
stanze affrescate di un palazzo di costruzione recente. Crea una
sensazione di instabilità, di sdoppiamento, come se avessi vissuto due
vite. Io sono qui, oggi, con idee e pensieri intatti, freschi, nuovi;
ed ero lì, in quel caldo pomeriggio di fine estate del 1987 con Leonardo
Sciascia e Gesualdo Bufalino, vivi, miei coetanei, e non nomi di un
libro di storia o di un sussidiario per le scuole (...) Ci stavamo
avviando alla prefettura dal Palazzo del governo per un'occasione che
oggi avrebbe un diverso senso e non avrebbe la stessa forza
anticonformistica di sconvolgimento di luoghi comuni che spinse
Sciascia all'impresa quando, durante i lavori di restauro negli
ambienti della prefettura, sotto la copertura non so se di stoffe o di
carta, riemersero le vaste superficie dipinte da Duilio Cambellotti,
ammiratissimo artista, architetto, scultore, mobiliere, pittore. Perché
dipinti recenti che erano stati coperti,
apparivano ora in perfette condizioni, luminosi e di stanza in stanza
splendenti? Perché, cosa che incuriosiva e divertiva Sciascia, negli
ambienti di rappresentanza appariva l'immagine del duce e, con lui,
altri gerarchi, riconoscibili nei loro volti atteggiati e nelle loro
pose marziali, a cavallo, a piedi, contro cieli luminosi, in festa,
con fasci e camicie nere, fez. Belle composizioni, e neppure troppo
retoriche, e bei paesaggi e campagne dipinti. Non si poteva consentire,
allora, che il duce continuasse a essere glorificato. E la «damnatio
memoriae» ne aveva imposto la cancellazione. Una imprevista forma di
«pietas» aveva indotto i moderni censori (nello spirito peggio dei
fascisti) a non cancellare ma semplicemente coprire queste vergognose
immagini (...). La rimozione scoperta doveva essere sembrata a Sciascia
troppo clamorosa per passare sotto silenzio, occorreva celebrarla e
ricordarla. Così nacque L'invenzione di una prefettura ,
un libro illustrato che l'editore Bompiani intese come un nuovo
racconto di Sciascia sia pure mosso come molti altri libri dello
scrittore da vicende e fatti reali anche di storia politica e civile.
Anche il libro sugli affreschi di Cambellotti a Ragusa nasceva da uno
stimolo di una realtà insolita e curiosa e imponeva una riflessione
non di pura cronaca ma di pensiero. La rimozione così radicale e
l'oblio degli affreschi di Cambellotti poteva avere una più lunga
durata e solo il caso aveva consentito di fare una scoperta così
curiosa, per il costume per la storia e per la politica. I due, Sciascia
e Bufalino, si fecero molti complimenti come due vecchi amici quali
erano, felici di avere combinato uno scherzo che ribaltava il senso
dell'impresa e riduceva i rischi di
critiche faziose. Lo scandalo non erano gli affreschi di Mussolini ma
la loro rimozione prima psicologica che fisica, se le condizioni degli
affreschi erano così buone. Io, divertito e lusingato dell'invito a
presentare il libro di Sciascia, che in molte occasioni mi diede
dimostrazione di stima e di amicizia, raccontai della percezione
mutata del prevalere della forma sui soggetti e probabilmente parlai
dell'eccezionale talento di Duilio Cambellotti e della sua capacità di
affrontare soggetti retorici e celebrativi senza rinunciare alla sua
stilizzazione delle forme così elegante e frigida da togliere all'esaltazione del fascismo
ogni convinta partecipazione. (...) Perché dunque censurarli? Sul
dubbio che il coinvolgimento emotivo potesse, allora e oggi, alimentare
la retorica fascista, il viatico di Sciascia rende sempre più
convincente e inevitabile la sua impresa di restituzione. L'invenzione di una
prefettura , appunto.
LA SCARZUOLA DI MONTEGABBIONE
Che cos'è la Scarzuola? Oggi è una sorta di parco, dove per
vent'anni, negli ultimi tre prima di morire (tra il '78 e l'81), Buzzi
abbandonò la sua impresa: questo grande architetto aveva deciso di
realizzare una città ideale, quindi di far diventare reale un'utopia.
Dietro il convento, in un declivio, in una zona tra colline con spazi
anche naturalmente predisposti a essere teatri e anfiteatri, Buzzi ha
ricostruito con straordinario gusto antiquariale l'architettura
antica, il mondo classico, le suggestioni di Vitruvio, di Borromini,
di Palladio, in una serie di edifici, torri, teatri, piramidi e
templi antichi che sono davanti a noi. Non sono un disegno, ma
invenzioni di Piranesi la cui visione diventa disegno, bensì muri,
pietre. E la cosa singolare è che, abbandonato questo luogo, costruita
una parte della città l'impresa non è finita. L'erede di Buzzi, il
destinatario di questo luogo straordinario, si è sentito come
incaricato di continuarlo. Quindi la città continua. È una città
antica che ancora oggi è in costruzione per finire gli ultimi edifici,
per costruire una lanterna borrominiana. In sostanza un sogno
dell'architettura che diventa realtà.
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