Le masche, sfumatura dialettale della parola streghe, e le veglie nelle stalle o intorno al fuoco. Entrambe creature della notte... «quel momento incerto e indefinito dell'esistenza in cui tutto tornava a essere selvatico», in cui tutto poteva accadere. Questi gli argomenti dell' antica tesi di laurea dell'oggi professor Marco Aime, docente di antropologia presso l'Università di Genova. «Il lato selvatico del tempo» è un viaggio reale, lungo un anno, in un mondo parallelo, leggendario, quasi magico: il minuscolo paese di Chalanco, infilato in una remota vallata nel cuneese, dove fino a due decenni fa ancora aleggiavano antiche credenze e ricordi distillati come succo d'anima nei pochi abitanti rimasti. Superata l'iniziale diffidenza, gli anziani custodi di quell'angolo intatto di passato hanno aperto le porte al curioso antropologo: Toni, Pettu, Teresina, ma più di tutti Tistin, l'abile narratore che ne ricordava davvero tante e per questo era stimato da tutti come «uno che sa». Così, ogni giorno qualcuno fermava il giovane forestiero per raccontargli una storia di masche. Solo gli uomini ne parlavano però, le donne parevano subire ancora, strisciante tra le maglie del tempo, il timore di essere sospettate. Perché, si sa, l'antico sapere delle witches - che etimologicamente deriva da wise, saggezza - è stato così tanto temuto dalla Chiesa da essere ridotto a un'apparente stregoneria malvagia. Certo, anche gli abitanti della Chalanco confermano che le masche, quando prendevano uno di mira, non erano affatto clementi... ma il malaugurato bersaglio aveva sempre commesso qualcosa per cui meritava una punizione precisa. Erano giustiziere sì, ma anche salvatrici. Il loro potere era ambiguo e si ergeva tra i confini di umano e bestiale, quotidiano e surreale. Potevano trasformare qualcuno in animale, ma anche curare malattie gravi con erbe o parole potenti. Sapevano, se necessario, anche evocare la pioggia. Contro di loro potevano solo alcuni sacerdoti, e il pane. Che, forse celando una connotazione eucaristica, le annientava... un po' come l'aglio coi vampiri. E fiutando le tracce di queste misteriose figure femminili, Aime scoprì il potere della parola. Della parola raccontata nel silenzio della notte. Il narrare storie era un'arte profonda e basilare per tutto il paese, per la conoscenza e la coscienza sociale. Dopo una giornata scandita dai ritmi del sole, in un unico tempo circolare, a lavorare spesso in solitudine, gli uomini e le donne si riunivano la sera, nelle stalle, a condividere. A raccontarsi le giornate, a tramandare o anche inventare storie e insegnamenti. A conoscere se stessi e la loro storia, la loro identità, i loro confini. Accadeva meno di un secolo fa, nelle nostre valli, come oggi accade tra le dune del Marocco o tra i canyon degli indiani d'America. «Adesso ci sono tutte altre cose», dicevano ormai anche alla Chalanco i vecchi rimasti a ricordare con Aime. Era arrivata addirittura la televisione, ma non li rese passivi e prese semplicemente il posto del fuoco: attorno a lei tutti dicevano la loro su ciò che accadeva sullo schermo, tanto che a volte nessuno l'ascoltava più e tutti parlavano animatamente tra loro.
Una volta, non lontana da noi, si viveva così. Ed è forse di questo che, senza saperlo, abbiamo nostalgia. Ecco il potere necessario, consolatorio, creativo della memoria.
Marco Aime, Il lato selvatico del tempo - Ponte alle Grazie, 140 pagg., 10 euro
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