A chi crede che questo mondo, completamente mappato e raggiungibile, non abbia più rifugi da offrire alle anime perdute. Che gli odori e i sapori siano globalizzati. Che viaggiare sia anacronistico, perché tutto è ormai riproducibile. Alla faccia di tutti costoro, e alla salute di chi sa che esistono ancora luoghi incompresi e impenetrabili, sono dedicati i libri di Lawrence Osborne. Inglese, anche se vive a New York, giornalista per il New York Times e il New Yorker e scrittore, tradotto da noi con i memoir Bangkok, Shangri-La e Il turista nudo (tutti Adelphi), Osborne - ospite questa sera alla Milanesiana insieme al matematico Wendelin Werner e al narratore ebreo americano Shalom Auslander - è un viaggiatore pericoloso: sprovvisto di sensibilità ai più retrivi collanti sociali, dotato di passo anticonvenzionale e melanconico, stomaco di ferro (da render voluttuosa la scena in cui in Bangkok assapora insetti) e immunodeficienza al pregiudizio, contagia i lettori d’un morbo nostalgico per luoghi che non hanno mai visto e per quelle piccole e potentissime trasgressioni che rendono un semplice spostamento in taxi pura sperimentazione. State per partire? Ascoltate che cosa ha da dire su che cosa sia un viaggio.
«Escludo che si possa dire di conoscere il mondo se non si è viaggiato. Ma è vero che l’antico concetto di viaggio non esiste più. Oggi, in sostanza, si paga per quella che era un’esperienza. È una contraddizione».
E lei, perché viaggia tanto?
«Non riesco a fermarmi nei posti in cui vivo. E mi viene in mente ora che è tutta colpa mia».
Impossibile. Dai suoi libri è chiaro che le ragioni sono più profonde.
«Chatwin diceva che “Siamo nomadi nati per camminare”. Mi sposto nel mondo perché sono asfissiato dalla vita occidentale: siamo tracciati, vigilati dal mercato, con una vita privata irreggimentata con ansia febbrile. Insomma, qui ci annoiamo a morte».
Lei arrivò a Bangkok la prima volta nel 1990. È tornato in Thailandia di recente?
«Per una donna, ahimé».
Come si è documentato su «Bangkok»?
«Non ci sono molti libri sull’argomento. Ho letto John Burnett, i thriller di Stephen Leather e alcune monografie di oscuri studiosi. Adoro anche le vecchie mappe. Là sopra c’è scritto tutto quel che si ha bisogno di sapere. Ma la mancanza di un vero testo sulla città per me è stata un incentivo. Riuscite a immaginare di scrivere qualcosa di nuovo su Venezia?».
Nei suoi libri ci sono pochissime citazioni letterarie. Ma quando viaggia legge?
«Senza sosta. Ma detesto citare i libri. Se altri scrittori sono presenti in me, devono esserlo in modo profondamente sgranato e invisibile, senza bisogno di citazioni. Voglio fornire osservazioni di prima mano. Sennò, meglio che stia zitto».
Lei distingue i viaggiatori in «turisti ordinari» e «anime speciali».
«Le anime speciali riescono a scorgere, o a percepire, qualcosa del nocciolo duro di un posto e della sua gente. E inconsciamente se ne innamorano».
E gli altri?
«Sono lì solo per il sesso. O per il sole. E non li critico affatto per questo».
Il suo ultimo viaggio e il suo prossimo libro?
«Sono stato in Pakistan, di nuovo in Thailandia e in Libano a raccogliere materiale per un volume sul bere. Nei luoghi musulmani del mondo».
In un suo delizioso pamphlet ha distrutto il mito di
Shangri-La. Ma lei ce l’ha una sua Shangri-La personale?«L’Appia antica, in aprile».
E perché?
«Mi ci portava sempre mio padre, da piccolo, a passeggiare. E ricordo che era piena di farfalle».
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