Cesare G. Romana
da Milano
Come spesso accade ai grandissimi, Paolo Conte se la dice poco, con le telecamere: «Ho un pessimo rapporto - sogghigna - così quando devo subirle fingo di non sapere che ci sono». Sicché Live - Arena di Verona, il divudì, e relativo album, realizzato questestate nel glorioso anfiteatro veneto, nulla concede alleffettistica spettacolare, che del resto non saddice allindole riflessiva del genio, e molto invece alla magia dei suoni, allasciutto fervore delle atmosfere musicali, tuttal più al controcanto pittorico delle luci.
Il risultato è non solo la documentazione dun concerto, come tutti quelli di Conte, di straordinaria pervasività, ma un bellissimo esempio di rigore e di misura, che non sminuisce emozioni e incantamenti, semmai li esalta. Grazie anche ad un intreccio, molto contiano, di sottile ironia e di passione che corre sottopelle, sdegnando le facili vie dellenfasi e contagiando la magnifica band: come in fondo lo stesso Conte teorizza nellintroduttiva Cuanta pasión - prezioso inedito registrato in studio col chitarrista Mario Reyes, dei Gipsy King, e con la cantante iberica Carmen Amor -, là dove afferma che «le musiche difficili/son spiriti dannati/che dal naufragio invocano/interpreti spietati/ma dato che contengono/occulte persuasioni/ti strappano anche lanima».
E così accade in questo viaggio incantato tra le stelle del jazz e il respiro ondoso della milonga, il «naso triste» di Bartali e la New York di «Duke Ellington grande boxeur», la sindrome francese di Madeleine e i «giorni tutti uguali» di Genova per noi. Tutte seduzioni che il mago Conte estrae dal suo onnivoro cilindro, e che restituisce nello splendore della dimensione live, portentosamente intatte nonostante i confini vasti dellArena: «Perché non è vero che gli spazi più piccoli - dice lAvvocato - siano necessariamente i più adatti alla mia musica: ho imparato a sfidare le distanze con le luci, unamplificazione adeguata, la nitidezza dei suoni. Allora la dialettica tra piano e forte, le timbriche, in definitiva le atmosfere non ne soffrono, anche se lo spazio non è quello raccolto dun teatro».
Infatti il disco, e il divudì, restituiscono felicemente il gusto contiano per le sfumature, i colori accesi o diafani, i ritmi elastici o perentori, lintreccio di luci ed ombre così tipici dun musicista-pittore innamorato del cinema e persuaso che «ogni emozione ha una sua tinta precisa». Proprio come la «verde frontiera tra il suonare e lamare/verde spettacolo in corsa da inseguire/da inseguire sempre, da inseguire ancora/fino ai laghi bianchi del silenzio», che il genio contiano dipinge in Alle prese con una verde milonga, tra un pianoforte che scava profondo nellanimo, una chitarra estenuata, il pedale sensuale e policromo di bandoneón, clarinetto, sassofoni, fagotto, e che costituisce uno dei momenti più emozionanti del canzoniere di Conte e di questo memorabile concerto.
Ma poi ecco il tratto guascone di Sandwich man e la temperie autunnale di Via con me, la febbre latina di Schiava del Politeama e il pianoforte debussyano di Bambolaah, il delirio swing di Lo zio e lo spleen rattenuto - quelloboe dolcemente invasato - di Gioco dazzardo. Ecco ancora il piglio boulevardier di Lupi spelacchiati e le citazioni raveliane di Max, lepos terragno di Diavolo rosso, reinventato in una versione che dà i brividi, e lamarcord sorridente di Bartali.
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