da Roma
Otto mesi di stoccatine, di osservazioni troppo audaci e di provocazioni. Come la passeggiata fra le macerie di Beirut a braccetto con il deputato di Hezbollah, Hussein Haji Hassan. Da quando Massimo DAlema si è insediato al ministero degli Esteri non è passato giorno che non si sia sottolineata la profonda discontinuità tra la politica estera dellesecutivo Berlusconi e quella del governo Prodi. Certo, lincidente diplomatico con gli Stati Uniti ancora non si è verificato, ma le esternazioni del vicepremier diessino e quelle dei suoi colleghi della maggioranza hanno causato irritazione e sospetto a Washington nonostante i sorrisi e le strette di mano con il segretario di Stato, Condoleezza Rice.
Il 20 maggio 2006, a soli tre giorni dal varo del nuovo governo, DAlema aveva messo i puntini sulle «i» a proposito delle relazioni con laltra sponda dellAtlantico. «Si può essere amici e dignitosamente. Se qualche anno fa il governo Usa avesse avuto amici di questo tipo che non lo avessero aiutato a sbagliare, questa guerra (in Irak; ndr) si sarebbe potuta evitare». Lesordio è stato seguito da altre dichiarazioni inequivocabili. Come nel caso della crisi in Libano. «Lamministrazione Bush - spiegò lex premier ad inizio agosto - deve provare a convincere Israele che la guerra deve finire rapidamente, il prima possibile».
Insomma, le crisi mediorientali, secondo la teoria geopolitica che DAlema in questi mesi ha enunciato, sono frutto o dell«unilateralismo» statunitense o della naturale propensione allo scontro di Israele. Quasi mai, invece, un accenno al nesso tra terrorismo di matrice islamista e le tensioni in Irak, Afghanistan e Palestina. Il 13 agosto, in seguito allinvio dei caschi blu in Libano, il vicepremier non mancò di precisare come «gli Usa appaiono quanto mai in difficoltà a dominare questi conflitti». Poi la famosa passeggiata in quel di Beirut che gli è valso lepiteto di «DAlemmah» da parte degli avversari politici nonché le critiche della comunità ebraica romana.
Anche sulla questione Ahmadinejad, il titolare della Farnesina il 31 agosto non si peritò di affermare che «se cè uno spiraglio per un tavolo negoziale questo va utilizzato e lItalia può avere un ruolo positivo». In questi quattro mesi tuttavia lIran non ha ancora fornito risposte esaurienti alla comunità internazionale sul tema nucleare. Allo stesso modo, anche più recentemente il leader della Quercia si è mantenuto in linea con il suo programma denunciando che «il vero obiettivo è restare in Afghanistan ma in modo diverso, non solo con una presenza militare» (10 novembre) e che «bisogna programmare la riduzione della visibilità Usa in Irak» (20 dicembre).
Mantenere una posizione antitetica a quella degli States e di Israele in politica estera per il vicepremier non è stata tuttavia impresa difficile. Molti nella coalizione di governo criticano le scelte operate da Washington dopo l11 settembre. A partire da Prodi che definì lintervento in Irak «un grave errore». Laltro vicepremier Francesco Rutelli, a poche ore dagli attentati sventati allaeroporto londinese di Heathrow, si affrettò a commentare che «purtroppo pagheremo a lungo le conseguenze dellavventura irachena» mentre Bush ripeteva che «siamo in guerra contro i fascisti islamici».
Molto più scalpore hanno destato alcune sortite di esponenti della sinistra radicale. Come lintervista del ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi (indipendente in quota Pdci), al Corriere nello scorso maggio. Un florilegio di «Bush ha i paraocchi» e «Castro mi emoziona». Che dire del ministro della Solidarietà, Paolo Ferrero (Prc), che prima di entrare alla prima riunione dellesecutivo proclamò: «Bisogna ritirare subito le truppe dallIrak»? Fu subito accontentato. Né si può dimenticare la partecipazione del segretario del Pdci, Oliviero Diliberto a un corteo lo scorso 18 novembre nel corso del quale furono incendiati i manichini di tre soldati (uno americano, uno israeliano e uno italiano) e fu gridato ancora una volta il deplorevole slogan «dieci, cento, mille Nassirya».
Le esternazioni di DAlema, come quella sullazione Usa in Somalia, sono in linea con quelle della maggior parte dei suoi alleati. E fanno parte di una strategia.
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