Vichi, radiografie (scritte) dei destini umani

Gian Paolo Serino

Marco Vichi è uno scrittore che crea un'atmosfera: come recitava lo spot di un noto brandy, anni fa. Solo che dai suoi libri non esci ubriaco ma lucido e consapevole di essere di fronte a un autore che è uno dei pochissimi potenzialmente in grado di scrivere il «Grande Romanzo Italiano» che aspettiamo da troppo tempo. Il suo nuovo libro, Il bosco delle streghe (Guanda), raccoglie diciannove racconti accomunati da una nostalgia e da una melanconia che si respirano a ogni pagina. Sono racconti spesso drammatici, fantastici, popolati di fantasmi di un passato che ognuno di noi tende a rimuovere perché oggi li chiamiamo incubi: in realtà sono profonde riflessioni sul vivere, sul morire, sul confine tra questi due baratri che nessun progresso è ancora riuscito a svelare. Più che racconti sono radiografie dei destini umani: un invito a non limitarsi a leggere la libertà ma a viverla. Qualunque essa sia. Si sorride anche, e spesso, in queste storie perché si ha la sensazione di trovarsi di fronte a uno specchio appannato che sta a noi rendere più nitido.

Vichi scolpisce le parole nel vento, ci tiene con gli occhi chiusi davanti a una scrittura così salda sulla pagina rara da incontrare oggi. In queste storie - alcune brevi, altre con il potenziale del romanzo - incontriamo i personaggi più diversi: poeti, pittori, artisti e funamboli della vita, contadini e padri disperati d'amore. Ambientati tra il centro di una «Firenze trasformata in una bella sala da bagno tirata a lucido» e le campagne del Chianti autentico, quello non ancora ristrutturato nel patinato Chiantishire.

Molti i racconti da incorniciare, ad esempio Corpo Mondo, ma su tutti Immensi cieli, dedicato a Dino Campana. Qui c'è tutta la poesia della scrittura del Vichi in potenza, raccontandoci le ore immediatamente precedenti la stampa della celebre silloge Canti Orfici. Scava nei suoi pensieri spiegando la follia apparente del poeta: «La potenza della parola non era stata esplorata fino alle sue estreme conseguenze. Lui aveva sentito la necessità di farlo. Le parole dei poeti potevano frantumare la roccia dell'ottusità e scalare la montagna dell'indifferenza per trovare versi capaci di trovare libertà in qualsiasi gabbia».

Ed è proprio da queste gabbie che Vichi ci invita a uscire: quelle invisibili che ci rendono prigionieri senza esserne consci. Con una scrittura difficile da trovare altrove: letteraria, ma al contempo comprensibile a tutti. Niente elucubrazioni mentali. Quello che manca al «Grande Romanzo Italiano».

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