Cultura e Spettacoli

VICO MAGISTRETTI Lo stile della semplicità

È morto uno dei padri del design italiano. Aveva 85 anni. Fu tra i progettisti che ricostruirono la Milano del dopoguerra

È nelle cose piccole che si riflette ciò che è grande. Guardate quella piccola lampada, formata da due mezze sfere che scorrono una dentro l’altra, aprendosi e chiudendosi. Accendetela e poi chiudetela senza spegnerla: la lampadina accesa all’interno lascerà filtrare appena una sottile rima di luce, come accade quando la luna passa lentamente sopra il sole, oscurandolo e lasciando trasparire solo un bordo scintillante. La lampada «Eclisse» è una delle piccole grandi cose che Vico Magistretti ha lasciato in eredità al design italiano, andandosene ieri mattina, sopraffatto da una lunga malattia.
Che fosse malato, questo gentiluomo milanese di 85 anni, lo sapevano solo pochi amici e collaboratori, quelli che potevano oltrepassare il muro della sua ferrea riservatezza. Agli altri resta, non il ricordo della sua recente sofferenza, ma il lascito prezioso di oltre cinquant’anni di attività progettuale nel segno del rigore e della semplicità.
Si affacciò alla progettazione architettonica nella Milano che furiosamente stava ricucendo le ferite della guerra. Non sempre nel modo migliore, ma questa è semmai una colpa degli urbanisti e degli amministratori. Lui, allievo di Ernesto Nathan Rogers, ne ereditava un razionalismo non algido e astratto ma affondato nella concretezza, radicato nei valori etici di una borghesia imprenditoriale che non ha mai amato (basta guardare l’architettura lombarda dal Settecento in poi) né gli sprechi, né il fasto, né l’esibizionismo. Milano cresceva tumultuosamente, rischiando di smarrire la sua immagine nell’anonimato delle periferie, ma già nel 1956 si aprivano i cantieri di due edifici che ne avrebbero caratterizzato orgogliosamente il nuovo profilo: il Grattacielo Pirelli di Giò Ponti e la Torre Velasca del “mitico” studio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers).
È il grande tema della ricostruzione a mobilitare gli architetti in quegli anni, intorno ai due motori propulsori rappresentati dalla Triennale e dalla rivista Domus diretta da Rogers. L’VIII Triennale lancia il concorso per la «casa collettiva»: vi partecipano Franco Albini, Ludovico Barbiano di Belgiojoso, Ignazio Gardella, Marco Zanuso, Anna Castelli Ferrieri, Ernesto Nathan Rogers, Vico Magistretti. Un florilegio di nomi e di idee.
Soffia impetuoso il vento della prima espansione economica. All’inizio degli anni Sessanta l’euforica fede nelle «magnifiche sorti e progressive» della società italiana porta alla rivalutazione del privato, alla ricerca di sicurezza e comodità, al desiderio di oggetti belli dopo averne avuti solo di necessari. Alla nascita del design italiano. Magistretti progetta abitazioni per i ceti emergenti dell’imprenditoria, dalla Casa Bassetti di Azzate, in provincia di Varese, alla Club House di Carimate. È per questa che disegna la celeberrima sedia «Carimate», fatta di legno e paglia, destinata a diventare un simbolo della swinging London perché piaceva ai Beatles.
Ma Magistretti confessò anni dopo che l’aveva disegnata per il ristorante del golf perché «le sedie di importazione, quelle di Aalto e di Jacobsen, erano carissime. Così inventai il mio primo pezzo di design». E scoprì anche che gli piaceva moltissimo disegnare sedie. Ne disegnò tante, forse una quarantina: fra le più celebri, dopo «Carimate» per Cassina, la «Maui» per Kartell, venduta in migliaia di esemplari, e la bellissima «Silver» per DePadova. Ma disegnò anche lampade: l’incantevole «Eclisse» è del 1965, seguirono «Sonora» e «Atollo». E il divano rivoluzionario «Maralunga» e il letto «Sinbad». E le cucine per Schiffini.
In quegli stessi anni una bella signora di Lecco, molto elegante, occhi aperti sul mondo, lanciava nel suo negozio di via Montenapoleone (poi diventato il grande show room di corso Venezia) la sofisticata collezione di mobili americani Hermann Miller, proponendo un arredo raffinatamente minimalista in un’epoca in cui ancora persisteva lo stile «brianzol-barocco» e il nuovo benessere portava alla mania del mobile d’epoca, disinvoltamente rifatto con legno tarlato, quando non si poteva accedere all’autentico.
L’incontro fra Maddalena De Padova e Vico Magistretti avvenne all’inizio degli anni Ottanta e fu l’avvio di un lungo legame professionale e personale. Fu anche l’unione di due concezioni su come progettare e produrre arredi: il massimo della qualità nel massimo della semplicità. Lo riassunse lo stesso Magistretti intervistato quest’anno in occasione dei cinquant’anni di vita del marchio DePadova: «Come si lavora con Maddalena De Padova? Be’ lei ha l’ossessione della semplicità e il rifiuto totale della decorazione». Ma la semplicità, osservava ancora Magistretti «è la cosa più complicata del mondo». Per DePadova Magistretti ha disegnato, fra l’altro, il tavolo di legno e cristallo «Vidun» (che sarebbe «vitone» in milanese perché il piano è sorretto da una grande vite), la poltrona «Louisiana» con il pouf, ben nove divani tuttora in collezione.
Non ha mai tradito il suo concetto di design, sposando sempre il disegno di serie all’elevata qualità artigianale. Non ha ceduto ai riccioli post-moderni di Alchimia, né ai revival modaioli anni Quaranta. Ha stimato Ettore Sottsass ma gli ha preferito Ignazio Gardella. Il design per lui è rimasto ricerca e non compiacimento. Ha vissuto sempre a Milano anche se la sua città ultimamente l’aveva un po’ deluso, perché ha perso grinta, è diventata sciatta. «La maggior parte dei nuovi edifici è brutta, dilagano i sottotetti che snaturano palazzi interi». Ma è rimasto: nella città dove aveva frequentato il liceo Parini, dove schizzava le sue sedie e le sue lampade sui biglietti della metropolitana. Dove conduceva una vita semplice. O forse complicata, chissà.

Una «complicata semplicità».

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