Il nome della trasmissione poteva suggerire un’azione opprimente, ossessiva, continua: Pressing. Raimondo Vianello era esattamente l’opposto: una leggerezza nell’essere presentatore, conduttore, partecipante, tifoso. Agli strilli da colosseo sapeva contrapporre il sussurro e l’arguzia, l’intelligenza del dire e del pensare, mai la caciara curvaiola e, ahimé e ahiloro, anche di tribune centrali. Lo sport gli apparteneva per nascita, era stato atleta e membro del Centro Nazionale Sportivo Fiamma, una sorta di omaggio all’appartenenza, da bersagliere, alla repubblica sociale che gli costò l’arresto da parte degli alleati. Praticava varie discipline ma il calcio gli era entrato nel sangue e qualunque campetto, anche sabbioso, di polvere e ghiaia, qualunque pallone, di pezza, di plastica o di cuoio, erano l’occasione per il gioco, per la partita, per il dribbling e il colpo di testa. Per destino gli capitò, dopo Totò, Walter Chiari e Tognazzi e la Sandra, di poter dialogare con il giocattolo preferito, al secolo proprio il football.
Pressing dunque, la sera della domenica, dopo l’abbuffata della serie A. Il popolo della tivvù era abituato al rito storico della Domenica Sportiva, l’accademia delle opinioni. Su Italia 1 avvenne la rivoluzione: al posto di un giornalista, di uno scienziato della materia ecco un attore, un comico addirittura, a presentare e spiegare, a domandare e rispondere su temi fino a quell’epoca impraticabili se non al bar o in parrocchia. Raimondo Vianello avrebbe potuto approfittare del proprio passaporto professionale per buttarla in macchietta, per trasformare lo show in corto cinematografico, e cavarsela con una battuta, una gag come altri sodali suoi di ieri e di oggi; aveva di fianco belle femmine, alcune dai nomi improbabili nella pronuncia Kay Sandwick, Lu-Ann Naudeau, Karim Nimatallah, altre facili a presentare ma civettuole nel proporsi, Elia e Casalegno, per dire. Erano tutte, finalmente per Raimondo costretto a fare la spalla da una vita, tutte, dicevo, mediani di spola, discrete e ubbidienti portalettere e non soltanto cosce e tette, secondo usi e costumi contemporanei.
Dunque il calcio era diventato un oggetto di discussione quieta, serena, aggettivi ormai smarriti, era materia di studio e di passione di Vianello, ne sapeva e ne poteva parlare con perizia, offriva l’assist e andava lui medesimo in gol con una battuta. Ricordo una puntata, quando Giorgine Chinaglia concluse uno dei suoi pensieri così: «Dico questo e basta!»; Raimondo non si scompose, incurvò appena la schiena già cifosa e mormorò a Long John: «Basta? Allora lei ci saluta, grazie, buona sera». Era questo il grimaldello per svelenire un mondo già tossico, era l’arte di chi aveva fatto la guerra, si diceva un tempo, di chi aveva conosciuto la gavetta professionale e non certo i precoci reality o talent show odierni, era il mondo della rivista, delle brillantine e del ciak si gira. Raimondo Vianello teneva questo nel cassetto di Pressing, non aveva dimenticato il passato e non correva verso il futuro, le sue figurine calcistiche erano le stesse nostre, sfogliavamo l’album con lui, sorridendo e mai bestemmiando, era un calciobalilla che parlava.
In Casa Vianello, mentre la Sandra sbuffava agitandosi sotto le lenzuola, Raimondo restava impassibile, continuando a leggere non un giornale qualunque ma La Gazzetta dello sport. Non era un caso. Così ha vissuto, così ha giocato. Ha scelto di spegnere la luce capendo che questo pallone non gli piaceva più.
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