Milano - C’è sempre qualcosa di olimpico nelle sconfitte dell’Inter. In certe giornate è come se l’allenatore, la squadra e i tifosi formassero un unico meteorite in caduta accelerata e l’unica preoccupazione fosse quella di gridare alla gente sotto di spostarsi in fretta perché la botta sarà pesante e per stagioni intere continuerà a vedersi il cratere.
Ci sono ancora in giro un mucchio di interisti convalescenti dal 5 maggio di cinque anni fa, la ricorrenza si celebra a breve, e sono ancora coraggiosamente in giro per stadi alla ricerca di un conforto che non arriva.
Bisogna comprenderli, anzi è facilissimo comprenderli, ieri poche bandiere prima della partita, nessun clacson per le strade, brusio nei pressi dello stadio, non esattamente quanto dovrebbe essere una giornata dal buon profumo da vivere in armonia con il resto dell’umanità.
No, in certe giornate il tifoso interista riesce a diventare un corpo estraneo a tutto il resto e ci riesce benissimo. E naturalmente queste giornate non sono giornate qualunque, insomma non succede in coppa Italia ai primi turni, no, succede quando la posta è alta, il traguardo è vicino e l’avversario non è poi così spaventoso, una addizione che porta a botte incredibili.
Adesso fare l’elenco dei vari Villareal e Valencia è quasi esercizio da mascalzoni, ma spiega molto bene perché il presidente è o sia diventato scaramantico, e non ha voluto saperne di feste. Ieri in quelle poche immagini in cui è stato inquadrato con il suo clan sulle poltroncine rosse di San Siro, aveva la medesima espressione dell’Olimpico di cinque anni fa, mentre Ronie piangeva in panchina e lui fumava in tribuna come un camino.
«Certe partite si possono anche perdere - ha detto il presidente mentre lasciava malinconico lo stadio -. Certe partite, ma non queste partite. La squadra ha giocato con l’ansia, come se fosse l’ultima volta». Centrando in pieno tutte le fregole che puntualmente assalgono l’ambiente nerazzurro quando si avvicina la meta. I tifosi si sono da tempo allineati a questa abitudine, in questa settimana se volevi farti un nemico interista bastava parlargli della Roma e della partita dello scudetto aritmetico.
Già dopo il momentaneo vantaggio di 2-0 del Palermo, erano accaduti fatti inenarrabili. Sono cose che lasciano il segno. Che cosa succeda in queste straordinarie giornate catatoniche resta un mistero, ma sono quelle che creano la complicità totale fra tutti e chiamano al grande raduno il mondo interista. Ieri i 56.577 spettatori di San Siro hanno inneggiato ai colori senza tregua, hanno continuato anche nell’intervallo nonostante la prova molto opaca della squadra, non si sono fermati neppure dopo la rete della Roma.
Il traguardo era lì a un passo assieme alla telefonata a casa, alla pizza con gli amici, al puntello con la ganza per chiudere in bellezza. Poi, mentre si avvicinava la fine, più che un incitamento le urla del Meazza sembravano una supplica di gruppo, era il segno che le cose si stavano mettendo abbastanza male: mamma spegni l’acqua e non buttare lo spaghetto, non ho più appetito.
L’uscita dal Meazza è stata lenta, dopo un’ora c’erano ancora tifosi che scendevano dalle rampe, ma la compostezza di chi sfollava è stata altrettanto olimpica. È questo che frega il resto del gruppo e spiazza la concorrenza: l’Inter e i suoi tifosi quasi invocano la catastrofe, ma come loro ormai nessuno la sa somatizzare meglio.
Anzi, è un ritorno felice alla normalità, insomma è come se le cose riprendessero ordinatamente il loro posto.
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