Scala, buio in sala, sul palco troneggia un teatrino in mezzo a una spiaggia, a sinistra un clavicembalo, a destra una sedia a dondolo, dietro un tronco dalbero. Dalla penombra la voce dolce e gentile del regista invita i tecnici delle luci a rendere meno violento, anzi «psichedelico», il rosso. Per non farlo sembrare un neon che striderebbe con una scena a tinte tenui.
«Le Convenienze sono una farsa, proprio da commedia dellarte, cè persino un baritono che impersona una anziana donna. È molto facile farsi prendere la mano e scivolare nel kitsch. Per questo ho cercato una scena elegante, sobria, fatta di tinte pastello» spiega il regista. Che mai ti saresti aspettato. Finora lavevamo visto in figure sopra le righe come il supermacho Alex Drastico o lo spregevole politico corrotto Cetto Laqualunque. Ecco invece un Antonio Albanese in punta di piedi in uno dei templi sacri del teatro, raccontarci con toni soffusi, da domani sera (ore 20) fino al 14, il suo Gaetano Donizetti, con gli artisti dellAccademia.
Un po come un sacerdote officiare in San Pietro?
«Esatto. Fare il regista alla Scala? Non posso nemmeno dire che fosse un sogno, perché nemmeno avevo il coraggio di sognare unesperienza del genere. Per carità, qui avevo fatto qualche anno fa Pierino e il lupo, ma come voce recitante, come attore. Adesso...».
Paura?
«No, terrore. E per vincerlo ho lavorato con tanto rigore e impegno partendo da zero».
Vale a dire?
«Innanzitutto le Convenienze e inconvenienze teatrali sono pochissimo rappresentate. Quindi cè poca storia di regia alle spalle. Abbiamo dovuto inventare lo spettacolo, scena per scena, come fosse la prima volta».
E come ha fatto?
«Lopera debuttò a Napoli, per cui ho pensato a una macchia mediterranea. Abbiamo fatto diversi sopralluoghi e individuato un angolo a Bolgheri, poi fotografato e riprodotto da Leila Fteita. Grazie alla incredibile bravura dei tecnici della Scala, dei veri artisti. Anzi, mi sono accorto seguendo la loro accuratezza, quanta bravura, inventiva e raffinatezza ci sia nelle mani degli artigiani italiani».
Una scena impostata alla sobrietà, abbiamo visto. E i costumi?
«Ho avuto limpressione che Donizetti abbia voluto mettere in scena un gruppo di borghesi un po storditi, non più in grado di sostenere il ruolo propulsivo che la loro classe invece rivestirà nel corso del secolo. Con le loro stupide beghe e gelosie faranno infatti fallire limpresa. Insomma già ammuffiti; quindi ho immaginato abiti rigorosamente depoca, il 1827, ma un po lisi, invecchiati. Ah, poi grazie allaccurata ricerca effettuata con Elisabetta Gabbioneta, ci siamo resi conto di quanto a Napoli, allora una delle capitali europee del teatro musicale, ci fosse una vera mania per le parrucche enormi, mastodontiche. Che abbiamo ricreato».
I cantanti?
«Be, i ragazzi erano parecchio intimoriti. Vengono dallAccademia, hanno pochissima esperienza. Molta dimestichezza con il canto, poca con la recitazione. Allinizio erano molto rigidi. Ho cercato di insegnare loro a usare il corpo, vero strumento di lavoro del teatrante. Perché il Teatro è fatica. Fisica intendo. E glielo dice uno che da giovane ha lavorato sette anni come operaio. Ma il palcoscenico va onorato, con tutta lenergia. Fino allo sfinimento. Da parte mia ho studiato movimenti che li lasciasse in scena il maggior tempo possibile affinché una volta calati nel personaggio non ne uscissero più. Ho poi tenuto conto dello strumento, la loro voce, che devono portarsi dietro e suonare mentre recitano».
Il risultato?
«A me sembra stupendo. E per merito loro. Il regista può fare molto, mettere la sua impronta ma alla fine sulla resa in scena riesce a contribuire per il 40 per cento.
Un esordio in punta di piedi dicevamo. Ma lopera lirica lha conquistata?
«Posso solo dire che non si può immaginare spettacolo più completo».
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