Vincono, non hanno altro

(...) Essi ci hanno fatto due palle così con il tweed che faceva inglese, mentre da noi di Sampierdarena andava forte la canotta. Nonché sul Genoa, così scritto, Genoa, che rappresenterebbe addirittura il nome della città. Laddove non avrebbe fatto male, alla gradinata Nord, un seminario sul rapporto tra colonizzazione culturale e risparmio sulle consonanti. Ci hanno fatto due palle tante sul porto che è genoano, sulla circonvallazione a monte che è genoana, la borghesia genoana, la tradizionale classe operaia ugualmente genoana, e quasi-quasi sulla genoana Albaro. E portate pazienza. Pure sui loro Genoa Club, ce le hanno fracassate: ne abbiamo in tutto il mondo, si gonfiano ogni volta il petto. Che è vero. E spicca, per attività, l'apprezzato club del Kazakhistan. Anche se qualcuno dovrebbe spiegare sulla base di quale arzigogolo i genovesi di Buenos Aires stanno in massa con il Boca. Tutti. Tutti, meno due sconvolti che sono andati a costruirsi un Genoa Club fino in Messico, San Cristobal de las Casas, un posto che è la disperazione dei cartografi. Ma portate di nuovo pazienza. Nel sospendere, qui giunti, l'interminabile elenco dei pretesti con i quali il genoano militante ha provocato l'orchite al sampdoriano medio, appare però impossibile non nominare Giulio Cesare Abbadie. I più giovani ne saranno stati forse risparmiati. Noi meno giovani, ne venimmo travolti. Era, Giulio Cesare Abbadie, un botolo franco-uruguagio appena più in carne del Cassano di Madrid, che negli anni Cinquanta giocava mediamente coi piedi. Salvo la volta contro il Napoli, ultima di campionato. Gli riuscì un passaggio. E grazie a quel passaggio, fu il trionfo. Campionato 1956-'57. Scudetto al Genoa? Non proprio, non scese in B: «A Ricu, ti l'è amiòu l'Abbadie?». «Eh, u l'è ùn fenomenu, l'Abbadie». «Megiu du Schiaffin». Così andava il mondo bicolore. E così va tuttora: «Cumme 'u Criscitu nu gh'è nisciùn». Tant'è che ancora nel 2009, in un bel romanzo di Roberto Perrone, genoano, non ti spunta un protagonista che vuole chiamare Abbadie il figliolo? Un semplice sguardo della moglie è poi bastato per evitare la tortura al piccolo. Certo. Quel matto Perrone c'aveva provato, però. D'altra parte, la libertà di stampa purtroppo è sacra. Vale a dire.
Per i suddetti motivi, più infiniti altri, alcuni antichi oltre Abbadie, e taluni però molto recenti, ribadisco il concetto: per doloroso che possa risultare, sarebbe giusto lasciare vincere il derby al Genoa.
Non dite subito no. Quei poveretti non hanno altro. Una squadra che risale all'Ottocento. Coltivano ricordi pazzeschi. Frustrazioni che li divorano vivi. Stanno dietro da mezzo secolo alle maglie dei ciclisti. Manco il Principe c'è più. E si allenano a Pegli come Renzo Piano, geometra. Ucciderli, perfino nel derby, suonerebbe carognata troppo facile. Negherebbe, tra l'altro, quel senso di solidarietà tra gli italiani unanimemente invocato per uscire dalla crisi.
Mettiti una mano sul cuore, fratello sampdoriano. E leggi qui: «Con il termine scaramanzia si indicano credenze di natura irrazionale che possono influire sul pensiero e sulla condotta di vita delle persone che le fanno proprie, in particolare la credenza che gli eventi futuri siano influenzati da particolari comportamenti senza che vi sia una relazione causale». Ecco. Sempre preferibile, col Genoa, baloccarsi nella scaramanzia. A cui personalmente non credo.

Pur sapendo che funziona. Se poi i tifosi sampdoriani, a maggioranza, voteranno invece perché ai rossoblu venga praticato il waterboarding, saremo gli ultimi a lasciarli soli.
Andrea Marcenaro
*editorialista de “Il Foglio“

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