Joan Baez: "Le mie canzoni frutto di una personalità dissociata"

L'artista Joan Baez con il nuovo libro alla Milanesiana: "Ora vi rivelo la mia malattia dissociativa"

Joan Baez: "Le mie canzoni frutto di una personalità dissociata"

Per Joan Baez, cantautrice di protesta rischia di essere una definizione corretta ma parziale almeno per chi ha sentito cantare a squarciagola la sua hit Diamonds and Rust (1974) da quindicimila metallari a uno show dei borchiatissimi, cattivissimi, durissimi, velocissimi Judas Priest. Due mondi lontani, forse solo all'apparenza. La canzone, come è noto, è ispirata dalla relazione di Baez con Bob Dylan e resta negli annali come una delle più ispirate riflessioni su amore, odio, tempo passato. I diamanti sono spesso richiamati nel libro di poesie e prose liriche della Baez, Quando vedi mia madre, chiedile di ballare, appena pubblicato dalla Nave di Teseo e presentato ieri al teatro Parenti di Milano, in dialogo con Sandro Veronesi, nell'ambito della Milanesiana, rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi.

Al pomeriggio, Baez ha incontrato la stampa. Serena, sorridente, disponibile al punto da accennare un brano per i presenti. Quello che segue è il resoconto di una animata conferenza stampa alla quale il Giornale ha preso parte. Non c'è bisogno di rompere il ghiaccio, ci pensa la protagonista. Si siede e attacca a parlare: «Prima di rispondere alle vostre domande, voglio raccontarvi il contesto nel quale nasce il libro. Quando vedi mia madre, chiedile di ballare è stato scritto, in parte, durante un periodo in cui ero un'attivista politica. Ma non è centrato su questo. Anni fa, mi è stata diagnosticata una sindrome dissociativa della personalità. Ci sono tante Joan Baez dentro di me, e qualcuna di loro è una scrittrice. Quindi molta poesia arriva da una parte nascosta nel mio animo, l'ho scritta sotto dettatura, per così dire».

Baez ha colto l'occasione di questo libro per raccontare anche della sua malattia. Un attimo di silenzio, poi prosegue: «Per questo è un libro molto personale e non politico. Lo voglio dire perché viviamo in un'epoca in cui la politica è tornata a essere centrale. Non me ne sono dimenticata. Non vivo fuori dal mondo. Ma il libro rispondeva a un'altra ispirazione, poco militante».

La canzone d'autore e la musica sono ancora strumenti di lotta e di liberazione o quella stagione, gli anni Sessanta, è finita?

«Forse è appena iniziata una stagione nuova. Per un certo periodo di tempo, c'è stato quasi un eccesso di talento. La guerra in Vietnam aveva influenzato, direttamente o no, la scrittura di molti musicisti. Può essere una risposta alla sua domanda. Risposta parziale, perché riguarda soprattutto gli artisti con i quali ho diviso il palco, nei Festival. Qualcuno scriverà la nuova Blowin' in the Wind, la nuova Imagine?»

In giro ci sono molte canzoni buone, però.

«Vero. Ci manca l'anthem, l'inno da imparare a memoria. Cantare in coro We Shall Overcome ci dava la sensazione di essere uniti e potenti. In attesa della nuova generazione di artisti, possiamo cantare i vecchi inni, di recente, nelle piazze americane, si torna a sentire il Dylan di Blowin' in the Wind. Qualche tempo fa ho partecipato a una manifestazione. Janis Jan mi chiese di cantare il suo brano One in a million. Era perfetta e facile da ricordare come... Beh, aspettate un attimo».

La canta, da seduta, con intonazione perfetta.

We are one, we are one in a million / We are one in a million strong / In my darkest night, I hold on to that light / We are one in a million strong.

Nel libro, lei ricorda, oltre a Dylan e Leonard Cohen, il talento esplosivo di Jimi Hendrix.

«In realtà non lo conoscevo così bene. Anni fa circolò una nostra foto dove fumavamo marijuana. Bella ma ritoccata. Certo, Jimi era vulcanico. Quell'inno nazionale americano straziato dalla chitarra di Jimi all'alba, a Woodstock, è ancora una immagine potentissima»

Alcuni mesi fa abbiamo guardato A Complete Unknown, il film di James Mangold su Dylan. Lei è «presente» in molte scene. Ne ha parlato con Bob?

«No, non ne abbiamo parlato. Ma posso dire che mi è piaciuto. Alcuni amici lo hanno criticato perché poco aderente ai fatti. Non mi pare abbia senso. Non è un documentario. È un bel film. L'attrice Monica Barbaro, che mi interpretava, è stata brava».

Torniamo al libro e alla relazione tra poesia e malattia. Cosa ha scatenato la malattia?

«Tutto nasce da un trauma subito nell'infanzia, un abuso fisico, sessuale. Per tutta la vita ho avuto problemi, fobie, ansie. Avevo ottimi medici. Mi hanno aiutato a funzionare secondo le aspettative del mondo. Certo, per andare in tour dovevo osservare una rigida disciplina: farmaci, dieta, sonno, attività fisica: altro che droghe. Ma l'oscurità era ancora lì. Per questo ho iniziato una terapia molto più profonda».

Ma non sapeva di essere stata abusata?

«Non lo ricordavo. L'avevo rimosso. È tipico di chi ha subito un abuso. Scatta un sistema di auto-protezione, il ricordo è dimenticato. Ma è sempre lì. Chi vuole sapere, alla fine, ricorda».

La poesia può essere militante?

«Sì. Sto scrivendo un poema, che pubblicherò a puntate sui social media, sarà di argomento civile».

Di cosa parla?

«Parla male di alcuni milionari».

Risate generali.

Prima che Elon Musk entrasse in politica, lei ha comprato una Tesla. Lo rifarebbe?

«Quella macchina è stata sfortunata. Poco dopo averla acquistata sono andata a sbattere contro un albero. L'ho fatta aggiustare. Sono andata a sbattere altre due volte. Ho lasciato perdere. Non faceva per me. Forse era una premonizione».

Risate generali.

Nel libro è evidente il ruolo decisivo di sua madre. E suo padre?

«Mio padre Albert era un fisico importante. Non volle collaborare con il Progetto Manhattan e con l'industria bellica nel dopoguerra. Il suo rifiuto era di tipo religioso. Era quacchero. Lo diventò quando io avevo otto anni. Lui poteva soffrire ma non poteva far soffrire gli altri. Era la sua regola. In famiglia si discuteva molto di temi come la violenza, la non violenza, la nazione. Era contro la bomba atomica. Quindi, sì, credo di poter dire che mi ha influenzato molto».

Nell'America di oggi è ancora possibile la disobbedienza civile?

«Piccoli gesti, sì. Ogni giorno ci svegliamo, e sappiamo che entro sera succederà qualcosa di disgustoso. Sembra che sia odiato chi va a scuola, studia, si informa. Guardate cosa succede ad Harvard. Personalmente, intendo lavorare con gli avvocati che si occupano dei ricongiungimenti tra gli immigrati espulsi e le loro famiglie, che sono ancora negli Stati Uniti. Il secondo mandato di Donald Trump è caratterizzato dal linguaggio crudele, al limite del sadismo. È distruttivo e finisce con lo sdoganare le azioni peggiori. Una cosa orribile».

Le canzoni contro la guerra non hanno fatto finire le guerre. Guardi l'Ucraina e Gaza.

«È spaventoso. Non vedo una risposta al momento.

Tecnicamente sono situazioni diverse situazioni ma alla fine è sempre una lotta tra poteri impari. In Ucraina, il potere più piccolo sta combattendo disperatamente. E io, o la maggior parte di tutti quelli che conosco, stanno soffrendo, e ancora una volta non sanno cosa fare».

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