La violenza di Stato per stroncare la rivolta di un popolo

Le sei condanne a morte annunciate ieri dal regime di Pechino «per omicidio e saccheggio» contro membri della minoranza musulmana degli uiguri dello Xinjiang sono la conseguenza di una rivolta scoppiata lo scorso 5 luglio nella città di Urumchi e poi propagatesi in altre città della regione. Quel giorno la polizia aveva disperso con la forza una manifestazione di giovani che chiedevano la punizione dei responsabili del linciaggio di due giovani uiguri avvenuto nella regione del Guangdong. I disordini misero a ferro fuoco Urumchi, capoluogo dello Xinjiang, dove gli uiguri esasperati scatenarono una caccia all’uomo contro gli han, etnia cinese maggioritaria nel Paese ma minoritaria nello Xinjiang, dove si comporta da colonizzatrice. In seguito gruppi di giovani cinesi hanno dato vita ad azioni di rappresaglia contro la comunità uigura: alla fine, secondo cifre ufficiali, si sono contati 197 morti, in maggior parte fra gli han.
Gli uiguri, un popolo di lingua del gruppo turco e di religione musulmana, sono gli «indigeni» dello Xinjiang, che in tempi più lontani si chiamava Turkestan. Sono in tutto nove milioni e affermano di essere stati lasciati ai margini dello sviluppo economico degli ultimi anni che sarebbe andato ad esclusivo vantaggio degli immigrati cinesi, che oggi rappresentano il 40 per cento dei circa 20 milioni di abitanti dello Xinjiang.

Le autorità comuniste di Pechino hanno affermato che il Congresso mondiale degli uiguri (che riunisce gli esuli all’estero) e la sua leader Rebiya Kadeer avrebbero organizzato a freddo gli incidenti di luglio, ma senza fornire prove.

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