Cesare G. Romana
da Milano
Old Dan Tucker è un Dulcamara doltreatlatico, che vende sui treni le sue pozioni «magiche» e intanto reitera il mito erratico degli hobo, caro a generazioni di cantastorie. Jesse James è invece il brigante generoso e spietato, con lanima da Robin Hood, caro alla leggenda e alla storia. Di entrambi, protagonisti di due canzoni di Pete Seeger, la voce ruvida di Bruce Springsteen reincarna la ribalderia sbruffona e la sottintesa umanità, cui una splendida band aggiunge il galoppo del banjo, il controcanto solenne dei fiati, la danza festosa dei violini e quella plebea della fisarmonica. Insomma, non cè da stupirsi se un grande album partorisce un non meno grande concerto: come questo del Boss, approdato ieri al Forum dAssago e accolto, col giusto balance demozione e dentusiasmo, da diecimila persone in motivato delirio.
Protagonista era appunto We shall overcome, lultimo disco springsteeniano accolto - non capita spesso - dal plauso corale dei critici e dedicato appunto a Seeger. Dense e sobrie le luci, calibrata la spettacolarità, tutta acustica la band, sul palco come nellalbum: con diciotto musicisti e la moglie di Bruce, Patti Scialfa, a guidare lapporto dei cori. E con tutta la magia che Springsteen riesce a evocare quando, lasciata a casa la E-Street Band, si ripropone lontano dal vitalismo stentoreo del rock, svelando così il suo volto più umbratile e interiore, e il suo policromo talento attoriale. Come nel memorabile tour che seguì The ghost of Tom Joad, e in quello scaturito da Devil & dust. E come in questa rivisitazione di Seeger, dove festa e struggimento, ironia e melanconia si mescolano splendidamente. Mostrandoci uno Springsteen alloccorrenza epico e alloccorrenza più riflessivo: come in Mrs. McGrath - un dolore di madre sul figlio ferito in guerra - col suo passo di danza campestre e il violino a raccogliere, dilatandola, la linea del canto. Per anticiparla, invece, in O Mary dont weep, dove tocca ai cori riprendere ed esaltare la duttile trama melodica.
Né manca, ovviamente, We shall overcome, il brano più celebre tra i molti scritti o rilanciati da Seeger, qui riletto su un ritmo lento di marcia, sottolineato da unispirata fisarmonica e cantato da Springsteen col tono assorto duna preghiera: quale in fondo esso è, celebrando la religione laica dei diritti civili, dice Bruce, «negli anni Cinquanta come nei Sessanta di Dylan e Joan Baez e ancora pochi giorni fa, quando ha fatto da colonna sonora alla marcia degli immigrati negli Usa».
Colpisce in tutto il concerto, come pure nellalbum, la comunanza dintenti che lega il vecchio maestro e il non più giovanissimo allievo. Ché, in Pete Seeger, Bruce Springsteen si rispecchia e si conferma, memore che «queste sono, in fondo, le mie radici»: non a caso affianca a John Henry, storia dottocentesca disoccupazione, la sua Johnny 99, ritratto dun disoccupato dei nostri giorni. E analogamente inserisce nella scaletta del recital, senza interromperne la continuità demozioni e datmosfere, la sua City of ruins, dedicata all11 settembre e tuttavia adatta ad evocare tragedie più antiche e anche più recenti - la distruzione di New Orleans, dove questo tour ha preso trionfalmente il via - col suo passo di spiritual senza tempo.
Nessun tradimento, dunque: la scarna poesia di Seeger riemerge vincente, pur riambientata in un più ampio contesto sonoro che non la smentisce, semmai ne dilata le prospettive, aggiungendo chiaroscuri e screziature, evocando stili diversi - cajùn, gospel, blues, folk, vaudeville - quasi a garantire al prototipo seegeriano unulteriore universalità. Al tutto Bruce assomma unirruenza di canto che era già, in nuce, nei testi e nelle musiche, cercava solo chi la stanasse e la rendesse esplicita, esaltandone la potente tensione etica.
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