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Vittorio Feltri si racconta/Seconda parte

Il direttore del Giornale si racconta a Stefano Lorenzetto per la puntata numero 500 della rubrica "Tipi italiani"

Vittorio Feltri si racconta/Seconda parte

Quanti nipotini hai?
«Cinque, da 1 a 25 anni. Se la prima nipote fosse stata stupida come me, che mi sposai a 22, e come sua madre Laura, che si maritò a 19 appena finita la maturità, sarei già bisnonno».
Che rapporto hai con i nipoti?
«Mi piacciono molto per 15-16 minuti. Poi mi rompono. Con i figli no, è diverso, il rapporto è paritario».
Ricordo male oppure a uno dei tuoi bimbi facesti mangiare il pepe, ingannandolo, per insegnargli a non fidarsi di nessuno, nemmeno del proprio padre?
«Ricordi bene. A Fiorenza. Insisteva nel giocare a tavola col macinino. Alla fine, spazientito, la invitai ad assaggiare il pepe. Scoppiò a piangere per il bruciore. Però non se l’è più scordato».
Non è bello non avere nessuno di cui fidarsi.
«Eh, lo so, ma in quel momento mi veniva a pennello».
Di quante persone ti fidi veramente?
(Ci pensa). «Sei o sette».
Quante qui in redazione?
«Cazzo, che brutta domanda. Non le ho mai contate».
Hai due vite parallele: dal lunedì al venerdì abiti a Milano, il sabato e la domenica torni a Ponteranica. Che cosa ti ha impedito di trasferirti definitivamente a Milano?
«Niente. Anzi, l’ho sempre considerata la capitale del giornalismo e vado molto fiero del mio Ambrogino d’oro. Ho ricevuto da Milano molto più di quello che le ho dato. Ma quando sono qui mi viene la nostalgia di Bergamo e quando sono a Bergamo mi viene la nostalgia di Milano».
Ponteranica com’è?
«Un paese modello. Perfettamente pulito. Funziona tutto. Ora c’è un sindaco della Lega, ma era così anche quando lo governava la sinistra. I miei sondaggi vado a farli alla trattoria Falconi, un covo di leghisti e di comunisti. C’è chi frequenta la Bocconi e chi la Falconi».
Sei davvero parsimonioso come ti dipingono?
«I capricci me li sono tolti tutti. Ora mi piace fare regali. Spendo parecchio in abbigliamento. Si vede che ho bisogno di apparire meglio di quello che sono».
Hai perso molti soldi per colpa della crisi?
«Non ho ben controllato. Sono ancora fermo agli anni Sessanta, quando a fine mese mi davano lo stipendio in banconote, dentro una busta color nocciola in cui mettevano anche gli spiccioli. Appena ho accumulato un po’ di risparmi, compro una casa. Almeno i mattoni posso toccarli, anche se cadono per terra restano miei. Una volta il direttore del Credito bergamasco mi costrinse a fare i... come si chiamano... contro pronti...».
I pronti contro termine.
«Ecco, quelli. Un’altra volta mi fece perdere una barcata di quattrini investendo 120 milioni di lire in azioni della new economy. Adesso quando mi si avvicina un funzionario della banca per propormi questo o quel prodotto, gli rispondo secco: ma perché non si fa i cazzi suoi, che ai miei so pensarci benissimo da solo, come può constatare dal conto? Bei tempi quando le banche erano come le chiese, tutti zitti e al loro posto».
Sei fiero d’essere italiano?
«Sì. Be’, fiero...». (Si stringe nelle spalle). «Non mi dispiace. Se fossi neozelandese, mi accontenterei».
Che cosa pensi dei tuoi connazionali?
«Sono convinto che lo Stato sia povero e gli italiani ricchi. Mangiano meglio, si vestono meglio, vivono meglio di tutti gli altri europei. In Germania alla sera cenano con pane e formaggio giallo. Per me di giallo c’è solo la polenta. Invece da noi ristoranti, trattorie, pizzerie a ogni angolo, sempre pieni. Il problema semmai è il Sud che non riesce a integrarsi».
Come mai la secessione viene chiesta soltanto dal Nord, anziché dal Sud?
«Me lo chiedo anch’io. Servirebbe nei meridionali uno scatto d’orgoglio. Sostengono che siamo egoisti? Lo siano anche loro. Via, ce ne andiamo! Perché stare insieme per forza? Che assurdità: si può divorziare tre volte dalla propria moglie, ma non da Platì o da Caltagirone».
Qual è la cosa più bella che hai fatto nella tua vita?
«Rendermi utile a qualche estraneo con la consapevolezza che non mi avrebbe dimostrato alcuna riconoscenza».
Una volta hai confessato di non essere mai stato felice. Quand’è che ti sei avvicinato di più alla felicità?
«La felicità è fatta di lampi che però illuminano tutta la vita. Non puoi godertela: solo ricordartela. Già tanto. Bisogna sapere che il resto è una macinazione di passi».
Illuminami con uno di questi lampi.
«Ero felice il giorno in cui fui assunto alla Notte. Più ancora il giorno in cui Mattia guarì. Aveva 7 o 8 anni quando diagnosticarono che sarebbe morto. Con due anni di cure, un medico omeopata lo salvò».
Perché non vai mai in vacanza?
«Perché riesco ad annoiarmi benissimo qui senza andare in ferie. E poi ci sono sempre, in vacanza. Il mio lavoro coincide col mio hobby. Nel fine settimana mi affaccio alla finestra e vedo la Maresana (un monte, ndr). Ma dove vuoi che vada?».
Rammento quando ti recasti ad Arcore per lamentarti del fatto che, nonostante la Mondadori fosse entrata nell’azionariato del Giornale, languivano gli investimenti, avevamo un minimo garantito pubblicitario da foglio di provincia, non si decidevano a darci le rotative a colori. Berlusconi osservò che eri troppo stressato e si offrì di prenotarti un resort in Messico.
«No, mi mise a disposizione una delle sue ville in Sardegna. Imbarazzato, evitai di rifiutare per non offenderlo. Presi tempo. Lui è fatto così. “Usi il mio aereo come fosse il suo”, mi ha persino detto. Ma ti pare? Ha insistito così tanto che una volta ho voluto provarlo per volare fino a Roma a vedere il derby di galoppo. Sedili in pelle, radica dappertutto, champagne appena salito a bordo. Ho giocato a fare il signore per un giorno».
Che cosa ti piace dei tuoi adorati cavalli?
«L’eleganza. Senza di loro, l’uomo vivrebbe ancora nelle caverne. E noi come li ripaghiamo? Facendone bistecche quando sono stanchi di galoppare. Lo stesso con le mucche che ci hanno nutrito del loro latte. Che barbarie! Guarda, mi piacciono tutti gli animali, a parte le zanzare. Ho qualche perplessità sul coccodrillo».
Mi ha sorpreso vedere che tieni la foto del tuo micione Ciccio come sfondo del telefonino.
«Non parlarmene. È morto la vigilia di Pasqua. Aveva 17 anni. Era un trovatello. Io l’avevo chiamato Fausto in onore a Bertinotti, ma fino all’ultimo giorno in casa è stato per tutti Ciccio. Me lo sono sognato la notte scorsa».
Hai anche la passione per la civetta. Mi toccò dissuaderti: la volevi mettere nella testata del Giornale in occasione di una riforma grafica. Ti obiettai che l’uccello notturno ha fama di portare iella e tu soprassedesti, perché all’argomento sfiga sei sensibile.
«Civette, gufi... Una passione irrazionale».
Se non fossi diventato giornalista, che professione avresti potuto fare?
«L’avvocato penalista. Il giudice no, meglio di no: avrei assolto tutti».
Il coraggio è una virtù importante per un giornalista?
«Sai che non lo so? Io non so se sono coraggioso. Forse sono soltanto sfrontato».
Una dote indispensabile per far bene questo mestiere?
«La curiosità».
La tua paura più grande qual è?
«Non la morte in sé, ma l’itinerario per arrivarci: le flebo, il prete che tenta di farmi fare quello che non intendo fare, le facce addolorate di quei pirla intorno al letto. Almeno quando morirò non vorrei avere rotture di balle».
So che ti piacerebbe morire d’infarto o, meglio ancora, fucilato, modalità per la quale ti stai dando parecchio da fare.
«Comunque di un colpo secco».
L’ho chiesto a Dagospia e ha svicolato. Ci riprovo con te: dimmi una cosa che non hai mai rivelato a nessuno.
(Riflette). «Ne avrei due. Da ragazzo mi sono preso una fucilata per davvero. Mi arrampicavo con i miei amici su un ciliegio. Alla fine il contadino perse la pazienza e mi sparò con lo schioppo caricato a sale. Mi colpì a un polpaccio. Tu non hai idea del dolore bestiale. Per paura non dissi nulla in casa e mi curai da solo».
E la seconda?
«Non so se posso raccontartela».
Dài, magari la metto nel titolo.
«Avevo 12 anni. Rovesciai una scrivania per sfilare 5.000 lire da un cassetto chiuso a chiave. Non se ne accorse nessuno. Ma io a distanza di 55 anni provo ancora vergogna di me stesso. Ho fatto molta fatica a dirtelo».
La cinquecentesima puntata dei Tipi italiani è finita. La vogliamo chiudere qui, questa serie, che dici?
«Io andrei avanti. È troppo bella».
(500. Continua) stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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