«Vivo tra i boschi Mio figlio ha scoperto Trinità a 15 anni»

RomaSolido. Semplice. Silenzioso. Per capire bene com’è fatto Terence Hill, basta guardarlo a cavallo. Parla pochissimo, per un ordine basta un sussurro, lui e l’animale uniti fanno uno solo. «Molti anni fa, quando divenni popolare con Trinità, la gente mi chiedeva: ci prometta di fare sempre film così. Sani, semplici, che si possano far vedere anche ai bambini». Promessa mantenuta. Il silenzioso eroe di mille avventure non ha mai tradito il proprio pubblico. È rimasto un divo semplice. E una persona per bene. Lo conferma L’uomo che cavalcava nel buio: due puntate di Salvatore Basile prodotte da Albatross Entertainment che (in onda domenica e lunedì in prima serata su Raiuno) lo riportano finalmente in sella. Confermando scelte professionali (e di vita) che parlano da sole.
«Secondo una leggenda indiana, il Creatore volle mettere accanto all’uomo tre animali che gli fossero di aiuto - racconta - il cane, il gatto, il cavallo. Ciascuno con la propria funzione. Quella del cavallo è la più difficile: regalare serenità all’uomo».
Ecco perché non c’è nulla che possa turbare l’olimpica serenità di Terence Hill!
«In effetti amo molto i cavalli. Monto da quando avevo 12 anni. E ho capito subito che questo è l’unico sport che si fa in due. Il bello sta proprio nel riuscire a “cavalcare insieme”; e riuscirci significa raggiungere la serenità».
Serenità perduta, invece, dal cavaliere de «L’uomo che cavalcava nel buio»...
«Sì: perché ingiustamente accusato di aver dopato un cavallo e provocato la morte del suo proprietario. Ma grazie ad una giovane amazzone dal talento innato riuscirà a rinascere. Una fiction, insomma, che contiene molti temi a cui tengo: l’amore per la natura e lo sport; il valore terapeutico del rapporto coll’animale; la lotta al doping».
Parolaccia, per uno che ha fatto sempre sport, e sempre all’antica.
«Be’: io mi sono dedicato alla ginnastica artistica, alla palestra, al nuoto, allo sci; anche a livello agonistico. Senza saperlo mi preparavo alle scazzottate con Bud Spencer. E intanto mi sono mantenuto sano. Ma ai tempi miei l’unico doping possibile era la vitamina C. Mentre oggi la competitività esasperata, i condizionamenti economici... tutto spinge i ragazzi a prendere delle scorciatoie. E poi, questo fatto della sofferenza: quando intervistano qualche calciatore lo senti sempre dire: “Abbiamo sofferto tanto”. Ma quale sofferenza? Lo sport è gioia, entusiasmo, divertimento. Anche nella fatica!».
E poi la natura. Compagna inconsueta, per un divo.
«Vivo immerso nella natura da sempre. Quand’ero già famoso, all’epoca di Trinità, passavo tutto l’anno in una casa nel Massachusetts. Boschi di querce e betulle, popolati di orsi e cervi, a perdita d’occhio. E non un’anima viva per chilometri e chilometri. Ci ho vissuto per trent’anni. D’inverno facevo sci di fondo fra gli alberi; d’estate nuotavo nel lago. Tornavo alla civiltà solo per girare un film. E anche oggi, che abito in Italia e torno laggiù solo per le vacanze, ho scelto di vivere a Gubbio, lontano dalle metropoli».
E oggi che è uno splendido settantenne, qualcuno potrebbe accusarla d’essere stato un «vecchio orso»?
«No. Perché ho sempre amato gli amici e la condivisione che si pratica sui set, quando si fa cinema. Ancor oggi sono amico fraterno di Bud Spencer, ad esempio, in un ambiente in cui le amicizie che datano quarant’anni, sono rarissime. Le nostre due mogli, Lori e Maria, sono come sorelle. Maria cucina a Bud il suo piatto preferito; che è anche il mio. Spaghetti al pomodoro e basilico».
Ma cosa significa per un divo tanto semplice un successo così clamoroso?
«Del successo bisogna dimenticarsi. Quando vivevo in America mio figlio non sapeva neppure chi fosse Trinità. Lo scoprì a 15 anni, quando a scuola gli proiettarono “Il mio nome è nessuno”. “Ma papà: tu hai girato con Henry Fonda!”. Non gli avevo mai detto quant’ero famoso in Italia, perché pensavo che non gli avrebbe fatto bene. Perché non volevo che scambiasse il padre per un eroe».
Non s’è mai stufato di assomigliare tanto ai suoi personaggi? Di essere sempre tanto buono?
«No.

Una sola volta feci il cattivo: il bandito Graziano Mesina, in Barbagia di Lizzani. Ma non fa per me. Non ho mai voluto riprovarci».
E oggi? Cosa conta di più, per lei, oggi, nella vita?
«Tre cose soprattutto. Umiltà. Costanza. Ed entusiasmo».

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