Il vizio italiano di demonizzare le lobby

Un fantasma (uno in più) si aggira per l’Italia, anzi una parola: lobby. È un riflesso condizionato: se si dice «lobby», tutti sono invitati a immaginare qualcosa di losco e probabilmente - anzi certamente - criminale. Si tratta dell’onda lunga dell’effetto P2, la famosa loggia segreta di Licio Gelli sui cui i veri propositi il dibattito resta aperto e la cui storia ha prodotto una sorta di universo parallelo in cui occultismo e criminalità, mafia e affari, tutto ciò che è torbido ed eversivo, forma un unico insieme in una melassa nera. Quella melassa ha molti nomi, «lobby» è uno di questi.
Questo effetto, del tutto inappropriato, introduce in realtà un pregiudizio totalmente illiberale secondo cui non è un criminale soltanto chi commette crimini, ma anche chi assume un atteggiamento, un comportamento considerato l’anticamera del criminale. È in fondo una riedizione dei pregiudizi del Lombroso: dai tuoi zigomi vedo l’assassino, dal tuo lobbismo vedo la propensione a delinquere.
Ciò che in America è considerato non soltanto legittimo, ma un motore della democrazia, il lobbismo per far valere i propri egoistici interessi, qui da noi è invece considerato l’anticamera degli incappucciati, roba da associazione segreta eversiva.
In America fu scritto un libro Thank you for smoking («Grazie per essere dei fumatori») di Christopher Buckley in cui si raccontavano le esilaranti avventure a Washington di un odiato lobbista del tabacco il quale spingeva la sua detestabilità fino a frequentare due altri odiosi colleghi lobbisti, uno nel commercio delle armi e l’altro in quello dell’alcol. Sei anni fa ne venne fuori un bel film di Jason Reitman con Aaron Eckhart. Il caso letterario e cinematografico certifica che i lobbisti americani non sono affatto dei santi, e che non sono sempre ben visti, specialmente se fanno affari in campi moralmente dubbi, ma dimostra che fare lobby è un’attività fondamentale in una democrazia in cui i diversi interessi - anche culturali, etnici, religiosi - si organizzano per barattare sostegno in cambio di leggi vantaggiose per la lobby.
I francesi ovviamente detestano le lobby considerate delle odiose americanate, ma le riconoscono per quel che sono, lobby e non associazioni a delinquere. Alain Minc, un saggista particolarmente noioso e prolifico, ha appena sfornato la sua ultima opera Un petit coin de paradis («un piccolo angolo di paradiso») in cui sostiene che l’Unione Europea è per fortuna diversa dagli Stati Uniti proprio perché, secondo i dati che cita, in America «il Congresso è la camera di risonanza delle lobby e le regole di trasparenza imposte dal Lobbyng Disclosure Act, non cambiamo nulla: il 43 per cento dei membri della Camera dei rappresentanti e la metà dei senatori che hanno lasciato il Congresso nel 1998 hanno in piena legalità raggiunto dei gabinetti washingtoniani di lobbyng». Traduzione: quando in America uno smette di fare il deputato o il senatore, va a lavorare negli uffici che promuovono le lobby (naturalmente si dovrebbe usare il plurale inglese lobbies, ma suona pretenzioso).
Dunque le lobby non sono associazioni caritatevoli, ma dei gruppi di interesse: i sindacati, quando dicono ai loro iscritti per chi votare, funzionano come lobby. La Chiesa può per lo stesso motivo essere considerata una lobby quando indica comportamenti elettorali e così anche tutte le comunità religiose. Non c’è analisi politica in America che non alluda alla potente «lobby ebraica» come se non esistesse una ancora più potente lobby islamica, per non dire della lobby dei golfisti.
Ma se ci incontriamo al bar in Italia fra dentisti, o fra elettrauti, immigrati rumeni, autori di etichette per il supermercato e discutiamo dei nostri interessi di gruppo, e magari lo facciamo a porte chiuse per non far impicciare le lobby concorrenti dei nostri affari, ebbene in quel caso formiamo una lobby, ma finiamo anche nel mirino dell’inquisizione.
In America l’atteggiamento è più laico e meno altezzoso. Il presidente John Fitzgerald Kennedy disse: «I lobbisti sono quelle persone che per farmi comprendere un problema impiegano dieci minuti, quando i miei collaboratori impiegherebbero tre giorni». E questo perché dove le democrazie funzionano, anche l’ipocrisia diventa una virtù: chi ha degli interessi e li vuole far valere, si presenta al tavolo delle trattative con le idee chiare e le proposte studiate e realizzabili.
In Italia, e più generalmente in Europa, l’ipocrisia è rimasta allo stadio metafisico: si finge cioè che la democrazia sia un insieme di virtù, anziché l’organizzazione dichiarata del compromesso e di regole che permettano di raccogliere risultati a favore di chi porta consenso da barattare con vantaggi, economici ma non soltanto. E così il mestiere del lobbista viene visto come una variante massonica delle associazioni segrete e delle cospirazioni indecenti. In realtà, così come accadeva nell’America di Kennedy, le lobby svolgono la funzione di premere su Parlamento e governo fornendo insieme ai problemi anche le soluzioni assolutamente di parte e in vista di vantaggi. Ma così facendo i lobbisti lavorano da legislatori (di parte), elaboratori di idee.
Sta poi all’esecutivo e al Parlamento prendere o rifiutare le loro proposte «chiavi in mano».

La demonizzazione del lobbismo quando non ci siano reati (se ci sono, è ovvio che la magistratura indaghi, incrimini e condanni) va ascritta alla pessima ideologia che ha preso piede in questo Paese e che pretenderebbe di ricondurre ad un arbitrario universo etico anche ciò che è bene che funzioni, per interessi di parte. L’insieme di tutti gli interessi di parte è l’interesse della società in un certo senso e ognuno di noi, se ci pensa, farebbe volentieri parte di una lobby. Tutto sta ad organizzarsi.

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