
nostro inviato a Venezia
Olivier Assayas adatta il romanzo Il mago del Cremlino (Mondadori, 2022) di Giuliano da Empoli. Non è un biografia di Vladimir Putin ma una lezione sul potere come macchina di finzione. Assayas non ha certo la folle pretesa di raccontare la Russia in 156 minuti. Preferisce instillarci il dubbio che i meccanismi dell'ascesa al potere, a Mosca, non siano poi cosi diversi dai nostri. È il film più apertamente politico del regista francese dai tempi di Carlos e anche il suo debutto in lingua inglese. La produzione è francese, il cast di richiamo internazionale: Paul Dano, Jude Law, Alicia Vikander.
La trama è semplice. Russia primi anni Novanta. Dopo la caduta dell'Unione sovietica, e passata la meteora di Boris Eltsin, il vuoto di potere è enorme. L'ubriacatura della libertà conduce all'anarchia del mercato e delle televisioni private. Tuttavia il popolo, progressivamente, avverte la necessità del "potere verticale" tipico della storia russa. Insomma, c'è bisogno di uno zar sotto mentite spoglie. Vadim Baranov, il protagonista, nasce artista, diventa produttore di reality, poi spin doctor di Putin. È l'architetto che capisce: la politica, per esistere, deve farsi intrattenimento. Il romanzo lo suggeriva, il film lo esplicita: la "verità" non sparisce, ma viene superata dalla sua messa in scena. Il potere nasce davanti alla telecamera. La politica, per Baranov, è teatro. Il palcoscenico ha bisogno di un mattatore. La democrazia ha bisogno di un sovrano. Ed ecco uno dei paradossi della nostra epoca, le democrazie sovraniste o illiberali. Il dramma si risolve con il deus ex machina. La democrazia deve essere verticale se vuole funzionare. Nel frattempo assistiamo ai passaggi più importanti e delicati del putinismo, dalla guerra in Cecenia fino alla questione ucraina. Emmanuel Carrère, sceneggiatore assieme al regista, alterna la febbre della cronaca alla calma glaciale dei retroscena: corridoi silenziosi, salette con moquette spenta, auto nere impenetrabili allo sguardo. Il regista, che ha sempre raccontato la relazione tra immagine e desiderio, qui compie un passo ulteriore: mostra come la fabbrica dell'immagine possa diventare infrastruttura di Stato. E anche questo è un meccanismo ben noto agli italiani, basti pensare a Silvio Berlusconi.
Paul Dano interpreta un Baranov cerebrale e insieme superstizioso, un demiurgo che capisce gli altri alla perfezione ma non sa nulla di se stesso. Jude Law mette a fuoco l'opacità, la cortesia puntigliosa, la ipocrisia del suo personaggio. Con economia di gesti, Law emana il carisma di Putin, che risiede nella sua maschera gelida e imperturbabile. Alicia Vikander, Ksenia, sfugge al ruolo di musa: è il fuori-campo del sistema, la tentazione, per Baranov, di una vita non amministrata dal calcolo. La libertà, insomma.La regia è coerente: niente retorica, nessun "momento storico" da manuale. Assayas preferisce l'ellissi, il fuori sincrono, l'inquadratura in ritardo appena percettibile. Le scene televisive sono il cuore tossico del film: la camera capta l'ego degli anchorman, i riflessi dei set, la verità compressa in slogan. Rispetto al libro, il film asciuga la biografia del guru e spinge sul lato meccanico della propaganda: target, timing, caduta controllata degli scandali. Carrère lima gli eccessi romanzeschi e lascia esplodere il paradosso: la finzione è più efficace se lascia qualche briciola di realtà. Baranov non avrebbe fatto meglio. Assayas lo dice apertamente allo spettatore: non cercate la "vera" storia di Putin, perché il punto è come le storie sono rese credibili, esportabili, commerciabili. D'altronde, la produzione ha girato lontano da Mosca, in Lettonia: dettaglio pratico che diventa metafora perfetta la Russia come paese ricostruito in studio, riconoscibile eppure posticcio.
Il ritmo, per quasi tre ore, chiede fiducia allo spettatore. Non tutto fila liscio: qualche ripetizione, qualche pagina programmatica. Ma la durata è conseguenza del significato: la manipolazione non avviene in un colpo solo; è una goccia che scava.