Nicola Gardini, la situazione palermitana che lei denuncia è specchio di una situazione presente o diffusa in tutto il Paese?
«Certamente, la baronia è diffusa in tutto il Paese, è lanima, il respiro dellaccademia. Il mio caso è emblematico: con il racconto della mia vicenda rivelo una mentalità, non una situazione eccezionale. Ma questo chi è dentro alluniversità non potrà mai raccontarlo - per paura, per abitudine o semplicemente per mancanza di senso critico. A chi vive nelluniversità il sistema baronale appare una condizione normale. La baronia è data per necessaria. A nessuno viene in mente che le cose potrebbero andare diversamente. Io ero avvantaggiato, perché avevo studiato in America e anche lavorato lì. Dunque, avevo in mente modelli alternativi».
Se tornasse indietro, resterebbe in Italia e farebbe qualcosa per denunciare lobby e baroni? Rimpiange di non insegnare qui?
«Non rimpiango proprio niente, né vorrei mai tornare indietro. Avevo un posto fisso nelluniversità italiana e ho scelto di uscirne. Io mi sono licenziato. I baroni li si può denunciare solo quando non si è più parte del loro sistema. Fossi rimasto, mi sarei adeguato, come tutti. Io volevo un lavoro che mi permettesse di coltivare lintelligenza mia e dei miei studenti. E lho trovato a Oxford. Limportante era trovarlo».
Ci farebbe una sua «modesta proposta» sulle necessità impellenti delluniversità italiana?
«Il discorso è lungo e andrebbe affrontato in maniera dettagliata e seria. Qui mi limito a dire che luniversità italiana va riorganizzata moralmente e tecnicamente. Occorre creare una dialettica interna al sistema; determinare una competizione virtuosa tra i dipartimenti, tra gli atenei, perché lobiettivo sia la crescita del sapere di tutti, non del potere di pochi. In America e in Inghilterra i capi di dipartimento pensano solo a sviluppare la forza intellettuale e il prestigio dellistituzione che li ha assunti. In Italia i baroni devono smettere di scambiare la loro missione istituzionale per un privilegio acquisito.
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