
Giovani, in coppia, con un lavoro interessante e una borsa di studio. Insieme, ma lontano dal proprio Paese, in una metropoli che sembra un grande nuovo inizio, ma anche un non-luogo senza regole familiari. Un luogo "in cui si è circondati da persone più grandi di noi che ci sembravano al contempo reali e irreali". Un luogo da esplorare come antropologi. Gli antropologi (trad. di Gioia Guerzoni, Gramma Feltrinelli, pagg. 224, euro 18), è appunto il titolo del terzo romanzo della scrittrice turca (ma ha vissuto in Uk, Danimarca, Stati Uniti) Aysegül Savas, miglior libro dell'anno per New Yorker e Time Magazine. Un romanzo (presentato oggi a Milano al Festival 2084 della scuola di scrittura Belleville - ore 19, EastRiver - e domani a Como, alla Libreria Ubik, ore 18) in cui nei protagonisti Asya e Manu, innamorati ed "expat" alla ricerca di una casa, lo sradicamento non produce nostalgia, ma ebbrezza e sgomento, distacco e attrazione.
Il libro sviluppa Future selves, un suo racconto per il New Yorker, ma l'idea da dove nasce?
"È fortemente autobiografica: la ricerca un appartamento è una struttura narrativa perfetta".
Asya e Manu non cercano solo casa, ma una "vera casa". Che differenza c'è?
"Si trasferiscono continuamente. Tutti i loro oggetti sono provvisori, come una continuazione infinita della loro vita da studenti. Per contrasto, le case dei loro vicini hanno anni di storia e stratificazioni: per questo sembrano loro vere case. Ovviamente si tratta di pregiudizi e insicurezze: anche le loro case sono reali, ma le percepiscono come una imitazione. È la sindrome dell'impostore di chi vive in un Paese diverso dal proprio: sembra che la tua vita conti di meno".
Non cercano "soltanto" casa quindi.
"Cercano il senso della vita. Non condividono alcuna tradizione, non vedono la famiglia di domenica, non celebrano nulla insieme. È una forma di libertà, ma è anche una mancanza di ancoraggio. Devi creare i tuoi rituali, trovare la lista di oggetti e abitudini che consideri sacri. Una ricerca poetica e simbolica, che li rende irrequieti, fragili, ma anche ironici".
Ha a che fare con l'età o con il sentirsi stranieri?
"Abbandonare la vita di prima, non vedere i genitori invecchiare, a volte provoca dolore, a volte vergogna. È un sacrificio, ma soprattutto una scelta e perciò non possono essere troppo tristi".
Una generazione piena di contraddizioni: vanno fuori a cena mentre in frigo il cibo va a male.
"Sono adulti ma giovani; fanno i soldi ma
sono precari; hanno tempo, senza figli né genitori di cui curarsi: libertà, e spavento, di questa generazione sono senza precedenti. Spero che invecchiando non perderemo il nostro senso di meraviglia e il suo potenziale".