Cronache

Il volto duro della Resistenza così cancella tutte le favole

Il volto duro della Resistenza così cancella tutte le favole

Carissimo Lussana la lettera di Carlo Barni, uno dei sei fratelli di Livio Barni, fucilato assieme ai combattenti della Rsi Luigi Ferrari, Ercole Fedeli, Tomaso Lasagni e Alfredo Tafuri, il 25 aprile del 1945 sul monte di S. Anna a Rapallo quando aveva solo 20 anni ed era papà di una bimba di due mesi, mi sembra a 60 anni dalla fine della guerra civile e a 50 della sua partenza per il Canada dove dovette emigrare per sopravvivere, la risposta più civile che poteva dare il rappresentante di una famiglia gravemente colpita dalla violenza espressa da una parte della REsistenza, al modo infame col quale Daniele Biacchesi ha esposto nel clima delle favole del Premio Andersen, ai bambini presenti una sintesi unilaterale degli episodi di violenza addebitati nella sua versione a combattenti nazisti e fascisti repubblicani.
Seminare l’odio tra i bambini è quanto di peggio e disecutivativo si possa fare, specialmente ora che il processo di pacificazione 5/13/2005 nazionale va acquistanto sempre maggiore consistenza.

Ecco un estratto della lettera.
È con estremo rammarico che vado a scrivere la presente in merito alla «Legge sui Ragazzi di Salò» che sfortunatamente è parte del passato d’Italia. È bene ricordare, che ignorando la storia, la storia è destinata a ripetersi.
Vorrei inserire in breve sequenza la storia della mia famiglia. Nel luglio 1943 mia madre rimase vedova con sette figli, mio padre morì all’età di 43 anni per i postumi di una scheggia in un polmone unita all’effetto dei gas asfissianti durante la prima Guerra Mondiale. Mia madre si trovò senza marito, in una guerra orribile, senza alcun supporto con sette figli da mantenere.
Nell’ottobre 1943 il mio fratello maggiore era appena diciottenne, ed essendo stato arruolato nella «Marina Militare», che non esisteva più, si trovò in un limbo, fino a che verso la fine del mese, i militi delle SS si presentarono con due persone in borghese, uno «Gestapo», l’altro interprete italiano «segretario del fascio».
Avevo sette anni: l’interprete chiese a mia madre se sapesse dove’era mio fratello maggiore, mia madre rispose di non saperlo, e fu allora che l’interprete le disse che se mio fratello non si fosse presentato alle autorità militari immediatamente, l’intera famiglia sarebbe stata deportata in un campo di concentramento in Germania. Mio fratello allora si presentò spontaneamente alle autorità, così che fu forzatamente arruolato nel Battaglione San Marco, della «X Mas», ed assegnato in una base in località Lido di Iesolo, provincia di Venezia.
Da allora fino al 21 aprile 1945 non sono in grado di produrre nessuna informazione, però mio fratello ritornò a casa proprio quel giorno; vennero alcune persone («gente del posto», visto che parlavano in dialetto locale) e mio fratello li seguì e sapemmo poi che fu portato in caserma. Il 23 aprile 1945 nelle prime ore della notte, era già stato giudicato, ritenuto colpevole di reati incomprensibili e così immediatamente fucilato. L’unica cosa sicura è che quando lo presero indossava ancora la sua uniforme militare, quando lo uccisero era in borghese.
Quando chiesi come si chiamavano i giudici che lo avevano giudicato mi venne risposto che nessuno lo sapeva, perché con ogni probabilità potevano essere stati dei capi partigiani che allora non usavano il loro vero nome ma solo nomignoli, come Punto o Virgola etc.
Comunque questa brutta storia non finisce con l’assassinio di mio fratello, dopo il 25 aprile 1945 cominciarono le calunnie, le maldicenze e le menzogne contro tutta la mia famiglia furono tali, che potevamo nemmeno più frequentare la scuola.
A quel tempo, avevo ormai compiuto undici anni e cominciai a lavorare, il momento per la scuola era solo la sera e continuai così lavoro e scuola. A sedici anni emigrai all’estero dove risiedo tutt’ora, e va detto che per tutti questi anni ho sempre creduto di essere fiero di essere italiano orgoglioso della mia patria, ma mi vergognavo di alcuni italiani.
Ora chiudo senza alcuna illusione che tutto il mio dire possa servire a qualche cosa, ma se questo corrisponde al vero è chiaro che nemmeno servirà il detto da voi usato così eloquentemente.

«Vince sempre, chi più crede».
Barni Carlo
Enerby, Canada

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