Un vuoto di 7 minuti e un amore segreto

«Capisci! Nessuno è uscito o entrato, c’è soltanto un cadavere»

(...) Poco dopo udimmo il rumore di una macchina, poi di un'altra, che si fermarono davanti al villino, e degli scoppi di voce. Aubier introdusse nella stanza del delitto il Procuratore della Repubblica, un medico legale, un cancelliere, due ispettori dell'Identità giudiziaria e il direttore della Polizia giudiziaria - il capo di G.7 - che si diresse subito, furibondo, verso il mio amico.
Il medico legale esaminò rapidamente il cadavere. Il suo verdetto fu: «Morte fulminea dovuta a perforazione del ventricolo sinistro e scoppio dell'aorta». Aggiunse poi, rialzandosi e pulendosi le ginocchia: «Si direbbe a prima vista che il delitto sia stato compiuto fra l'una e le tre del mattino. L'autopsia ci permetterà di precisarlo».
Perché, in quell'istante, il mio sguardo cercò il mio amico G.7? Lo ignoro e ne arrossisco. Avevo riflettuto, infatti, che il delitto si era svolto verso le due, cioè proprio quando avevo chiuso gli occhi al sonno per sette minuti. Nessuno era entrato nella casa. Nessuno ne era uscito, o meglio, soltanto tre persone avevano potuto entrarne e uscirne: G.7, l'agente Aubier e io stesso!
Ero sicuro di me. Non pensavo nemmeno ad Aubier. Ma G.7?
Io avevo dormito sette minuti! In quell'intervallo, che cosa aveva fatto il mio amico? Avrebbe potuto, affrettandosi, entrare nel villino, sparare, ritornarmi accanto. Sì, affrettandosi ci sarebbe riuscito. Alzai le spalle. Che idea stupida! G.7 era un funzionario della polizia. Per quale motivo avrebbe ucciso un russo che non conosceva nemmeno?
Proprio in quell'istante il Procuratore della Repubblica, un piccolo uomo glabro, gelido, dai capelli di argento, si volse verso il mio amico e gli domandò qualcosa. Udii la risposta di G.7: «Sono rimasto di guardia tutta la notte! Dietro la casa era appostato un agente. Affermo che nessuno è entrato nel villino; nessuno è uscito».
«Lei sostiene dunque», ribatté con voce secca, ironico, il Procuratore, «che quest'uomo si è ucciso e ha nascosto poi con cura la rivoltella».
«Sostengo soltanto che nessuno è entrato o uscito da questa casa. Inoltre, non c'era nessuno nel villino, ieri sera. Nessuno stamattina».
Questa volta il magistrato non si curò di rispondere. «Guardiamo che cosa c'è nei mobili», disse il cancelliere.
Mentre le autorità frugavano nei cassetti, osservai per mio conto un particolare che mi colpì. Una cosa insignificante, del resto. Nel tubo della stufa che traversava dal basso in alto la stanza era stata praticata, come spesso accade, un'apertura rettangolare chiusa da uno sportellino scorrevole. Ora, lo sportello era aperto e il tubo presentava un'apertura di quindici centimetri su dieci all'incirca.
«Il tubo scende nella stanza da bagno!», pensai. «Se c'è qualcuno sotto, in questo momento è in grado di ascoltare tutto ciò che si dice in questa stanza».
Fui quasi convinto di poter arrestare, io, l'assassino, di riuscire dove specialisti agguerriti brancolavano alla cieca. Per me la cosa era chiarissima. Nella stanza da pranzo doveva esserci un caminetto. Quando fui nelle scale, tirai fuori la rivoltella e tolsi la sicura.
Arrivai al pianterreno con la gola stretta. Aprii la porta.
Ma mi era riservata una forte delusione. Niente caminetto, ma una semplice stufa rotonda, minuscola, dove soltanto un gatto avrebbe potuto nascondersi.
Udii in quel momento la voce del Procuratore dire chiaramente: «...Mi farà egualmente il piacere di affidare l'inchiesta a un altro Ispettore...».
Impallidii figurandomi l'umiliazione del mio amico G.7. Udii poi i suoi passi nelle scale e lo vidi passare sul lungosenna, il bavero dell'impermeabile rialzato, a testa bassa.
Dirò tutta la verità, semplicemente, anche se non è sempre bella. Mi allontanai, a mia volta, dal villino di Asnières, mentre le autorità frugavano ancora nei cassetti, prendevano fotografie.
Mi sentivo colpevole verso il mio amico. Avrei voluto raggiungerlo per scusarmi con lui, ma non mi riuscì.
Eppure, senza spiegarmi il perché, sentivo verso G.7 una specie di sorda rabbia. Continuavo a pensare: Ho dormito sette minuti... Quella maledetta piccola frase insignificante non voleva uscirmi dal cervello.
Poco dopo le undici, ripulito e riposato, mi recai nell'ufficio di G.7. Il mio amico indossava sempre lo stesso abito inzuppato, la sua cravatta era ridotta a una cordicella grigia. I gomiti sulla scrivania, esaminava delle carte, delle fotografie sparse davanti a lui. Notando sotto le altre una testa di donna, domandai con tono scherzoso: «La trovi carina?».
«Non sai ancora la notizia?», ribatté piantandomi addosso due occhi tristi, pieni di rimproveri. «Ho scritto le mie dimissioni».
«Sei pazzo? Per un'osservazione stupida che ti ha fatto un vanitoso di magistrato».
«Come puoi sapere ciò che mi ha detto?», protestò con tono ostinato. «Ma non importa», continuò. «Ormai sono deciso. Stavo ordinando i documenti dell'incartamento Morozov per passarli al mio collega incaricato dell'inchiesta».
«Come? C'è già un incartamento? Come hai fatto a riempirlo?».
«La Sezione Stranieri ci ha fornito alcune carte e qualche fotografia. E le autorità hanno trovato ad Asnières altri documenti, che il Capo ha voluto gentilmente passarmi per aiutarmi a compilare il mio rapporto».
Mi piegai sulla spalla di G.7 e vidi una fotografia del generale, una istantanea che lo rappresentava in frac davanti a un tavolo di baccarat.
«Ah, era un giocatore?».
«Come tutti i russi».
Notai anche una polizza d'assicurazione sulla vita.
«A favore di chi?».
«Sua figlia».
«Aveva una figlia? E il premio dell'assicurazione era forte?».
«Trecentomila appena».
«Quando si assicurò, il generale?».
«Tre mesi fa».
«Avrà dovuto pagare comunque delle forti rate! Un uomo che viveva così poveramente. Quanto denaro hanno trovato in casa sua?».
«Quindici franchi, e alcune bollette del Monte di Pietà».
«Scommetto che continuerai l'inchiesta, ufficiosamente, per scoprire la verità prima del tuo collega, non è vero?».
«Ti sbagli!».
G.7 alzò le spalle, si distrasse un momento, e io ne approfittai per afferrare la fotografia che m'interessava.
«Eh! Eh!», esclamai stupidamente, come si fa in questi casi. La fotografia era quella di una ragazza, più che bella seducente, conturbante. Una di quelle donne che fanno fatalmente voltare gli uomini e popolano i loro sogni. Una di quelle donne che ti fanno credere all'ideale, all'amore come lo cantano i poeti.
«È la figlia del generale?».
G.7 grugnì un sì vago.
«La conoscevi già da prima?».
Ebbi l'impressione che il suo sguardo mi sfuggisse. Ero snervato. Chissà perché, la solita piccola frase mi risuonò nel cervello: Ho dormito sette minuti...
«Vorrei rimaner solo», disse lentamente G.7. «Devo finire il mio rapporto».
«Confessa piuttosto», dissi, «che vuoi riguardarti questo splendore di ragazza», e uscii in tutta fretta, temendo la reazione di G.7.
Nei giorni che seguirono il mio turbamento si accentuò.
Telefonai in Prefettura: «Allò! Datemi per favore l'ispettore G.7».
«Non è in ufficio!».
«Quando tornerà?».
«Lo ignoriamo. Non per ora».
Una settimana dopo telefonai a casa del mio amico. La cameriera mi fece aspettare; tornò a dirmi che G.7 non era in casa. Mi insospettii: il mio amico non voleva più vedermi, dunque; neanche parlarmi al telefono?
I giornali non si occupavano più del delitto di Asnières.
Passò un mese. Una sera un amico mi disse: «Sempre innamorato cotto, G.7?».
«Che?».
«Non lo sapevi? Nessuno l'ha più visto. Ossia, è lui che non vede più nessuno. Per essere esatti, vede una persona sola, molto più piacevole a guardarsi, ammettiamolo, di te e me».
«Una ragazza?».
«Bellissima! Dupré li ha incontrati. Un tipo slavo, molto spiccato».
Più tempo passava più quella faccenda dominava la mia vita. Era un'ossessione.
È arrivato ora il momento di confessarmi. Qualche giorno dopo questo colloquio scelsi fra i piccoli avvisi di un giornale un indirizzo: Leduc, ex ispettore della Sureté. Pedinamenti e inchieste di ogni genere. Discrezione assoluta.
Un uomo baffuto, di 50 anni, mi ascoltò strizzando gli occhi e mi ricondusse sul ballatoio battendomi sulla spalla: «Si fidi di me! Torni fra 48 ore».
«Soprattutto che l'interessato non sospetti mai niente!».
Un vero tradimento verso il mio amico G.7. E non avrei saputo dire perché agivo in quel modo...
Secondo il rapporto di Leduc, il 29 giugno, nove giorni dopo il delitto di Asnières, G.7 si recava in compagnia di una sua cugina, una signora molto elegante, a un'esposizione di una casa di mode, Madeleine et Soeurs, dove Sonia Morozov era impiegata.
«Interrogata Germaine, collega di Sonia», diceva il rapporto. «Durante la sfilata delle indossatrici tutti hanno notato gli sforzi di G.7 per avvicinarsi a Sonia e parlarle. All'uscita, verso le sette, Germaine ha visto G.7 passeggiare nella strada. Egli ha seguito Sonia fino alla casa della ragazza».
«Il signor Paolo, capocameriere del Cappone d'Argento, un ristorante elegante dell'Avenue Montaigne», riprendeva dopo alcune pagine il rapporto, «ha visto più volte Sonia accompagnata da un signore anziano che era un amico di suo padre. Il contegno dei due è sempre stato molto serio. Il 2 luglio Sonia faceva colazione come al solito con il suo amico quando è entrato G.7. L'amico di Sonia lo ha chiamato per nome. I due si sono riconosciuti come due vecchi amici. G.7 si è seduto al tavolo di Sonia e poco dopo è rimasto solo con la ragazza».
«Il 6 luglio è tornato al Cappone d'Argento con lei. Secondo il signor Paolo i due se la intendevano...».
Dalle chiacchiere prolisse del signor Leduc e dalle mie osservazioni estraggo i seguenti particolari importanti. Sonia, la figlia del generale Morozov, è impiegata in una casa di mode. (Il giorno dopo la morte del generale avevo trovato G.7 in contemplazione del suo ritratto). Qualche giorno dopo il mio amico si introduceva nella casa di mode con il pretesto di accompagnarvi una cugina. Si avvicinava alla ragazza, l'aspettava per strada, la seguiva come un collegiale. Qualche giorno dopo, sapendola al Cappone d'Argento, vi si recava, vi trovava un amico miracoloso che gli procurava un'intervista con Sonia. Infine G.7 tornava nello stesso ristorante solo con la ragazza.
Questo era tutto. Non era molto. E il mio malessere, invece di dissiparsi, aumentò.
Perché G.7 aveva dato le dimissioni? continuavo a domandarmi. E perché mi sfuggiva con tanta ostinazione? E, soprattutto, perché non cercava più l'assassino del generale Morozov? L'avevano allontanato dalla polizia ufficiale? Ragione di più per prendersi la rivincita.
L'amore? No, rispondevo. Un uomo come lui non si lascia prendere fino a quel punto. G.7 è sempre stato innamorato del suo mestiere. C'è qualcosa sotto...
E quella dannata voce mi ripeteva dentro: Ho dormito sette minuti...
Parole che non significavano niente, che potevano spiegare il mistero in un modo terribile. E se G.7 avesse conosciuto fin da prima Sonia? E se il padre...
Mi decisi; sollevai con un gesto furioso il ricevitore telefonico e formai il numero del mio amico.
«Allò!», rispose una voce che mi fece trasalire. Era lui!
«C'è qui qualcuno», dissi, «che ha una voglia matta di rivederti».
Non so perché: trionfavo, eppure provai un senso d'umiliazione. La voce di G.7 disse a una persona che era con lui nella stanza: «Non è niente, Sonia».
«Ebbene, quando posso vederti? Devo rivolgerti una domanda molto importante».
Udii in sottofondo il rumore confuso di un colloquio.
«Intesi», disse finalmente G.7, «quando vorrai. Del resto, ti avrei cercato prima della fine della settimana...».
Eravamo al 5 agosto: era passato un mese e mezzo dal delitto di Asnières.
«Vediamoci subito!», gridai.
«Va bene, sarò da te fra un'ora».
G.7 si lasciò cadere in una poltrona.
«Credimi», mi disse gravemente, «desideravo da molto tempo parlarti a cuore aperto. Ma soltanto da ieri...». S'interruppe, aveva gettato lo sguardo sui fogli del prolisso rapporto di Leduc sparsi sul mio tavolo. Mi lanciò uno sguardo così triste che fui costretto a voltare la testa. Prese i fogli e cominciò a leggerli.
«Ottimo rapporto», disse con mio stupore, quando ebbe terminato di leggere. «Le cose stanno più o meno così! Non si poteva ricavare di più da una storia così banale. Un giovanotto si innamora guardando una fotografia... cerca di vedere da vicino la donna che ammira. Sì, l'ho attesa nella strada: l'ho seguita. Il compagno di Sonia è un tipo che conosci anche tu. Leverdy, ex addetto all'ambasciata di Pietrogrado. È stato lui a far entrare Sonia nella casa di mode. Se ne andò per primo, quel giorno, perché capì che... No, la parola intendersi non mi piace. È stato un amore violento fin dal primo sguardo, che abbiamo combattuto tutti e due per ragioni diverse. Soltanto ieri, dichiaratasi vinta, Sonia ha parlato. Non di se stessa, non della propria tragedia, ma di suo padre... Mi ha dato un foglio: la ricevuta che le aveva mandato da firmare una società di assicurazioni. Erano pronti a versarle trecentomila franchi, premio di un'assicurazione contratta a sua insaputa da suo padre. Sonia mi ha raccontato la triste storia del generale Morozov. Erano scappati dalla Russia con pochi gioielli. Il generale non si preoccupò, nei primi tempi. Era un giocatore... Il dramma è questo... un giocatore. Dalle sale di roulette di Montecarlo passò, gradino per gradino, alle bische clandestine, alle compagnie losche. All'inizio giocava con gettoni di mille franchi; finì per giocarsi il prezzo di una cena sul banco di zinco delle bottiglierie. Sonia intanto era cresciuta; giovanissima, si era impiegata, nonostante l'opposizione del padre, sicuro di riconquistare un giorno l'agiatezza attraverso le carte. Il generale veniva ogni tanto a trovarla nell'appartamentino dove Sonia era andata ad abitare sola a Neuilly. Sempre per chiederle del denaro, che perdeva al gioco. Qualche settimana prima di morire le domandò, a brevi intervalli, alcune forti somme. Corrispondevano ai premi pagati per l'assicurazione. Sonia credeva che volesse giocare anche quel denaro; ebbero dei violenti diverbi; l'ultima volta lei lo scacciò rimproverandolo duramente. Ora non se ne dà pace. Una cosa atroce, non è vero? Il generale è morto assassinato... a meno che...».
«A meno che?», ripetei.
«Non hai ancora capito?», sospirò G.7. «Vieni con me; torniamo ad Asnières».
«Ma che cos'hai risposto a Sonia?».
Egli voltò la testa, pieno di pudore.
«Niente... Eravamo molto vicini. Mi ha appoggiato la testa sul petto. Le ho domandato... se avrebbe accettato di sposarmi, di vivere con me... dopo aver lacerato la polizza di assicurazione».
«Ma il generale è stato assassinato... Non capisco perché...».
«Sonia è a casa mia. Mi aspetta. Abbiamo ancora molte cose da dirci...».
Davanti al villino era fermo un tassì. Improvvisamente sconvolto G.7 balzò a terra; si precipitò verso la porta. Nel corridoio Sonia ci guardava, rossa in viso.
«Il mio amico sa tutto», disse G.7. «Puoi parlare davanti a lui».
Salimmo in silenzio. Il disordine creato dalle autorità non era stato riparato.
«Pensate al generale...», diceva G.7 salendo le scale, al generale solo in questa casa. Non può più giocare, non ha più nessuna speranza. Soltanto il rimorso e la vergogna gli rimangono. Ha rovinato sua figlia. Niente può più salvarlo! Ma forse, egli si domanda, una riparazione è possibile. Tre mesi prima di morire si assicura per una certa somma. Domanda a Sonia stessa l'importo delle prime rate. Il primo denaro che non perde al gioco! Ma la sua morte deve essere naturale. Il suicidio è da escludere, altrimenti la società non pagherebbe. Il generale riflette a lungo. Come tutti i russi, è un forte giocatore di scacchi. Adora le complicazioni. Finalmente trova: ritaglia delle parole nei giornali. Annuncia alla polizia che sarà assassinato nella notte fra il 19 e il 20 giugno... Vuole accertarsi che degli agenti sorveglieranno la casa. Pranza come al solito al Ristorante Franco-Milanese. Solo nella sala, sa che è l'ultimo suo pranzo... Rincasa lentamente. Ci vede. Sale le scale, accende il lume a petrolio, disfa il suo letto, come ogni sera. Indossa il pigiama. La rivoltella è sul comodino, accanto al samovar. Ma, perché non si pensi al suicidio, occorre che l'arma sparisca subito dopo la morte. Gli agenti non saliranno immediatamente. La rivoltella è munita di silenziatore. Ma quale complice la farà sparire?».
Dentro di me la voce ripeté: Ho dormito sette minuti!
Guardai con ammirazione G.7.
«Un complice muto», egli proseguì. «Un complice inanimato. Una semplice pietra, raccolta nella strada. In pigiama, il generale attacca uno spago al calcio della rivoltella. Lega la pietra all'altra estremità e la fa scendere nel tubo della stufa. Entra in ballo il principio del contrappeso. Finché il generale sosterrà l'arma, il sasso, sorretto, non cadrà. Ma quando le sue dita, nell'agonia, si apriranno, la pietra, diventata più pesante, trascinerà la rivoltella nel tubo. Tutto era dunque pronto. Tutto era previsto. Il generale prende la mira. Nessuno lo disturberà. E quando noi arriviamo, al mattino, nessuno sarà entrato nel villino; nessuno ne sarà uscito! Non ci sono armi nella stanza, eppure un uomo è morto, ucciso con una palla al cuore».
La voce di G.7 diventò affannosa. «Tutto ciò», egli riprese, «io lo sapevo dopo i primi dieci minuti della mia inchiesta».
Infatti, ricordavo, egli aveva passato i primi dieci minuti a cercare l'arma.
«Il tubo aperto, due piccoli graffi sulla latta. Dunque, il generale si era ucciso». Dunque, ragioni imperiose gli imponevano di nascondere il suicidio.
«Ho taciuto: volevo scoprire il segreto del morto. Un uomo intelligente, rispettabile, un gran signore, si era ucciso facendo l'impossibile perché si credesse a un delitto. Non mi riconoscevo il diritto, non come poliziotto, ma come uomo, di far stampare senz'altro nei giornali: “Il generale Morozov si è ucciso”. Mi hanno ritirato la direzione dell'inchiesta e non ho protestato. Ma quest'offesa mi ha spinto a dare le dimissioni. Per redigere il mio rapporto ho dovuto esaminare l'incartamento dell'affare. Ho scoperto la polizza di assicurazione e una fotografia».
«Eperciò», non seppi trattenermi dall'osservare goffamente, «perciò corresti da Madeleine et Soeurs?».
G.7 si vendicò alzando le spalle: «Esistono persone abbastanza perspicaci per sapere sempre che fanno la tal cosa per la tal ragione. Io, nella vita, sono incapace di determinare a quale sentimento esatto obbedisco. O meglio, di orientarmi fra i vari sentimenti complicati che formano i miei motivi. Incontrai Sonia. L'amai. Questo solo importa. Oggi lei ha strappato con le sue mani la polizza d'assicurazione...».
«E tu strapperai la lettera di dimissioni, è vero?».
«Non lo so ancora».
«Ma...».
«Non c'è soltanto la polizia ufficiale...

E non vedo perché non dovrei fare la concorrenza al signor Leduc!».
Arrossii fino alle orecchie e mi congedai balbettando scuse vaghe. Indovinai, mentre chiudevo la porta, che G.7 e Sonia erano nelle braccia l'uno dell'altra.

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