Cultura e Spettacoli

WALDMAN L’ultima poetessa beat

Negli anni Settanta fondò con Ginsberg l’Università buddista del Colorado e «iniziò» Manhattan ai reading poetici

«Ho conosciuto Anne Waldman a New York nell’entourage letterario dell’avanguardia», racconta Fernanda Pivano in Beat&Pieces, il catalogo della mostra di fotografie di Allen Ginsberg in corso in questi giorni a Milano. «Era bionda e sottile, molto giovane. Molto stimata e colta, aveva contribuito a diversi progetti per sostenere la poesia, organizzava workshops e poetry reading. L’ho frequentata poi a Boulder in Colorado al Naropa Institute, all’Università Buddista fondata nel 1974 da lei e da Ginsberg... Avevano chiamato questa scuola “Jack Kerouac School of Disembodied Poetics”. Tutte le estati insegnavano lì. Mi divertivo molto a partecipare».
La “Jack Kerouac School” e il suo programma estivo di creative writing resiste. L’estate 2006 prevede ad esempio che poeti, artisti e buddhisti invitati affrontino nelle loro lezioni argomenti come l’ecologia della mente e del pianeta, i confini di critica, dialettica e poetica della prosa, i media e la performance. A dirigere la scuola, oggi, senza più il suo maestro Allen Ginsberg al fianco, è Anne Waldman, poetessa con 42 volumi all’attivo, tra cui il poema epico di oltre 300 pagine Iovis (1993) sull’anima mascolina e le sue fonti di energia, definita dal New York Times «la donna più saggia e veloce a correre coi lupi». Nata nel 1945 a Millville, New Jersey, folgorata dall’incontro con Allen Ginsberg, di cui ha curato il vastissimo archivio di nastri conservato alla Naropa University, e dalla conversione al buddhismo, ha “iniziato” Manhattan ai reading poetici negli anni Settanta, facendo della St. Mark’s Church-in-the-Bowery il punto d’incontro per performer di poesia di tutto il mondo. Di lei, che vive tra New York, Boulder e il mondo (tiene reading in Scozia, a Bali, in Nicaragua, Italia...) si può dire che sia l’ultima poetessa beat, oracolo e sirena di uno spirito a sentir lei per nulla estinto.
Anne Waldman, che cosa significa beat?
«“Ah, questa può essere solo una Beat Generation”, disse Jack Kerouac a John Clellon Holmes (ma anche “Questo è beat: amare la vita fino a consumarla”, ndr). Fu Herbert Huncke, hipster, scrittore, ladruncolo, vagabondo degli ambienti di Times Square e della 42ma strada, a introdurre il linguaggio hip nella nostra conversazione, compresa la parola beat: “Man, I’m beat” significava “Sono senza soldi e non so dove dormire”. Secondo Ginsberg significava anche lealtà e umiltà nel senso inteso da Walt Whitman. Un terzo significato lega beat a “beatitudine”, intesa come illuminazione spirituale. Tutti gli scrittori beat erano sofisticati, impegnati, eccitati, “beati” proprio nel senso di illuminati».
Come cominciò per lei il rapporto con il Beat Movement?
«Ero “vicina di casa” di molti di questi scrittori, dato che sono cresciuta nella McDougal Street, nel Greenwich Village di New York (dove vive ancora, ndr). Naturalmente avevo letto L’urlo di Ginsberg e mi rappresentava, anche se ero molto giovane. Molti dei miei amici avevano problemi, venivano rinchiusi per le loro “follie” o lasciavano la città per immergersi nella natura. I miei genitori erano artisti bohémien. Mio padre aveva conosciuto Ginsberg negli anni Cinquanta, ma io e Allen ci siamo incontrati per la prima volta soltanto nel 1965, al leggendario Festival di Poesia di Berkeley. Ci siamo però avvicinati solo negli anni Settanta grazie all’attività politica, eravamo insieme al “Chicago 7 Trial” (il processo intentato nel 1969-70 contro otto dimostranti radicali accusati di cospirazione e incitamento alla rivolta durante la Convention Democratica di Chicago del 1968, ndr) e al buddhismo. Poi la “Jack Kerouac School” è diventata il nostro progetto comune fino alla sua morte. Spesso Allen si riferiva a me come alla sua “moglie spirituale”. Avevamo un demone vitale che ci accomunava come ambasciatori autonominati della poesia».
Quali sono le caratteristiche per riconoscere un beat?
«La curiosità. La lotta contro la ristrettezza mentale dello status quo. Il desiderio di cogliere lo spirito del tempo e di viverne le contraddizioni. Ma anche un interesse per l’improvvisazione, il jazz, gli stupefacenti, la libertà d'espressione, i diritti civili, i diritti dei gay, l’ambiente, l’interesse per le religioni orientali e le antiche tradizioni. E ancora: un sentimento di simpatia, di empatia, di libertà immaginativa».
Ha avuto altri maestri, oltre a Ginsberg?
«Lo scrittore Bernard Malamud, il poeta Howard Nemerov. William Burroughs mi ha offerto la bussola per navigare in quelle che Keats chiamava potenzialità negative. E ho avuto la fortuna, quando avevo 18 anni, di incontrare Diane Di Prima, la prima ragazza di buona famiglia italoamericana che abbia osato davvero vivere da beat, vestire in jeans e sandali alla schiava e vivere on the road. Rimbaud, i Surrealisti, i modernisti, Gertrude Stein, Ezra Pound, William Carlos Williams sono stati liberatori. E le culture orali di India, Messico, Nepal, Indonesia. La meditazione insieme ai lama tibetani...».
Lo spirito beat soffia ancora negli Stati Uniti?
«Alcune pratiche beat, come la tecnica compositiva del cut-up di Burroughs, il lavoro sui sogni e il flusso di coscienza panoramica di Kerouac sono ancora utilizzati da alcuni giovani scrittori. I poetry slam di oggi sono gli epigoni delle prime collaborazioni beat-jazz nei caffè e nei bar. Alcune icone culturali successive, come Patti Smith o Edward Sanders sono ispirati dal beat. Burroughs stesso è ancora un’icona culturale e in generale gli scrittori beat sono ancora molto popolari tra i giovani. Ci sono corsi monografici sui beat in molti licei americani. Gli studenti sono attratti dalle potenzialità beat, specie in questi tempi politicamente difficili. Alcuni studenti della “Jack Kerouac School”, che vengono da ogni parte del mondo, riescono a mantenersi come scrittori, aprono case editrici in proprio o insegnano. L’urlo, cinquant’anni dopo, non ha smesso di essere ascoltato».
Riesce a sintetizzare la filosofia beat in un unico ricordo?
«Allen Ginsberg ed io eravamo insieme a Praga dopo la “Rivoluzione di Velluto”. Una notte, in una discoteca, dopo un reading di poesia, una donna si avvicinò a noi e disse che voleva imparare la tecnica della sitting meditation. Così ci siamo messi nel mezzo della pista, con le luci stroboscopiche che pulsavano al ritmo della dance, e le abbiamo spiegato la postura e la “psicologia” del respiro nel buddhismo.

Questo è beat».

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