Whitman, un nonno in erba

00:00 00:00

Allen Ginsberg lo ha incontrato in Un supermarket in California, Robin Williams ha fatto risuonare «il mio barbarico yawp» sotto le luci dell’Attimo fuggente. Walt Whitman, Nonno Walt, è il Poeta Americano per antonomasia, ancor più nell’Era Obama, dal momento che Barack mira a essere il nuovo Abraham Lincoln, il Capitano! Mio capitano!, il «padre amato» per cui Nonno Walt ha scritto la poesia funebre (per inciso: tra le sue più brutte).
La dico come pare a me: gli Usa non hanno avuto Rimbaud, non hanno avuto Holderlin, non hanno avuto Leopardi e neppure Coleridge, ma un bell’uomo dal petto ampio e dal verso facile, un vagabondo rampante, eccitato quanto serve, schiamazzante Omero. A leggere Nonno Walt viene voglia di farsi tutti poeti, cingersi di alloro il capo, mandare affanculo il capoufficio e andarsene per boschi. Inventò il «verso libero shakespeariano», tagliò il cordone ombelicale con la Tradizione Europea, che sentiva stretta come una camicia di forza, stressava la sua follia. Non fu geniale come Melville, non fu capace come la Dickinson, cavalcò lo stallone democratico, manco New York fosse Atene: più di tutti è l’Uomo Americano. Nella versione di Foglie d'erba appena riedita da Feltrinelli, il carisma vien fuori: è il primo libro, quello del 1855 (perciò: non avete la poesia per Lincoln, per fortuna, ma vi manca il meglio di Nonno Walt, Quando i lillà fiorivano... e la mistica Un silenzioso paziente ragno; Harold Bloom lo ha riabilitato: Whitman non è un ribaldo sessomane della vita perennemente in erezione, bensì un magnetico alchimista, fautore di poemetti esoterici), poi continuamente rimepito di fogliame lirico fino alla morte, accaduta 120 anni fa. Soprattutto, nel lunghissimo, superetorico scritto iniziale, in cui Walt latra ai quattro venti che «gli americani di tutte le nazioni d’ogni tempo sulla terra posseggono probabilmente la natura poetica più piena» che «America è la razza delle razze» e che il poeta americano «trascina i morti fuor dalle bare e li rimette in piedi».
Intanto, ode al traduttore. Alessandro Ceni ci ha dato Moby Dick, Lord Jim di Conrad e Coleridge (sempre per Feltrinelli), oltre a un mucchio di altri autori (Stevenson, Poe, Milton, Wilde) mettendo al nostro servizio una lingua lirica formidabile (Mattoni per l’altare del fuoco, uscito da Jaca Book nel 2002 è il più bel poema degli ultimi lustri). Comprendo bene perché Nonno Walt gli sta stretto, non gli andava di tradurlo, trova il modo di nanificarlo a ogni paragrafo: la sua poesia «non ha retto fino in fondo al giudizio del tempo», è minata da «oratoria, retorica, didascalica», fosse per lui, Ceni avrebbe optato per «una selezione all’osso (poco proponibile editorialmente)». Nulla di male: Tommaso Landolfi tradusse controvoglia Nikolaj Leskov senza togliere un metro alla sua limpidezza linguistica. Per giocare alto, comparate l’edizione Feltrinelli con quella della Bur.

Ci mette il miele Giorgio Manganelli, spiegandoci tutto dall’alto della sua sapienza letteraria (favoriva Poe): «miscela di Baghavadgita e New York Herald», la poesia di Whitman, «che oscilla tra il film dei marines e la verbalità mitica di un Blake», era «incline ad apprezzare la stupidità». Cari americani, tenetevi pure Whitman.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica