Willem Dafoe: «Amo cambiare adesso voglio farvi ridere»

Il popolare divo americano, premiato con il «Locarno Excellence Award», farà il seguito di «Mr. Bean»

Cinzia Romani

da Locarno

Fa il diavolo e l’acqua santa, convincendo comunque. Perciò quest’anno va a lui il «Locarno Excellence Award», prestigioso riconoscimento alla carriera, che il Festival del Pardo d’Oro ieri ha assegnato all’attore americano (del Wisconsin) Willem Dafoe. C’è chi ricorda il multiforme interprete come il buon sergente Elias, che nel finale del film di Oliver Stone Platoon (1986) s’immola per i suoi principii e chi, ancora, direttamente come Gesù ne L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese (1988), gli occhi chiari illuminati da dentro, per via d’una credibile bontà. E c’è chi, invece, non si leva di testa il perfido succhiasangue de L’ombra del vampiro di Elias Merhige (2000), dove Dafoe faceva così bene il predatore di vite altrui, gli occhi sbarrati nell’avidità del male, che tutti si sono chiesti: c’è o ci fa? Proprio come avvenne nel 1922, quando Nosferatu di Murnau evidenziò i tratti caratterialmente perfidi dell’attore Max Schrek, calato nel ruolo del vampiro. Non a caso ieri il film di Merhige è stato proiettato quale metafora dell’artista completamente immerso nella propria arte.
Sposato con l’attrice italiana Giada Colagrande, oggi Dafoe è un artista maturo, coltiva molti progetti e, vestito in nero totale, forza spesso i confini della sua bocca espressiva apparendo allegro e stupefatto nel contempo.
Che significa, per lei, essere un attore?
«Vuol dire fare ogni volta cose diverse. Ricominciare da zero, sempre. Ogni film, per me, è come un figlio differente».
Come riesce a calarsi, con tanta disinvoltura, in ruoli così radicalmente diversi tra loro?
«È proprio quello che m’interessa del mio lavoro. Riuscire, cioè, a mantenersi comunque in equilibrio. Potrebbe stupire, ma sarò presto in un ruolo comico, con Mr. Bean».
Avrà, finalmente, una parte tutta da ridere?
«In questo Mr. Bean, diretto da Sten Bendelack a far ridere è sempre Rowan Atkinson, dunque non sono io l’elemento comico. Mi trovo soltanto al centro d’una commedia, nella parte di un regista che deve presentare il suo film al Festival di Cannes e perciò gireremo in Provenza. Lavorare con Atkinson dà molte possibilità e voglio cogliere l’occasione per raffinarmi ulteriormente».
Quali sono i progetti futuri?
«Ho messo molta carne al fuoco. Diretto da Theo Anghelopoulos girerò The Dust of Time (La Polvere del Tempo), un progetto particolare del quale, per adesso, posso dire unicamente che sarò al fianco di Valeria Golino e di Harvey Keitel e che mi affiderò completamente al regista, nel quale ripongo assoluta fiducia. Poi sarà la volta di un giallo intitolato Anamorph (Anamorfo), ambientato a New York e dove interpreto un detective alcolizzato. Il regista esordiente Henry Miller, che è anche lo sceneggiatore, ha molta libertà, perché il film è finanziato da privati e dunque si tratta di un’operazione insolita. Per la quarta volta, poi, tornerò ad essere diretto da Paul Schrader, nel thriller The Walker, da girarsi interamente a Washington, con la sua atmosfera politica che condiziona un po’ tutto. Se ne vedranno delle belle, particolarmente perché il protagonista è un gay, che per lavoro accompagna in giro le mogli dei senatori. La mia però è una parte secondaria».
La politica americana, da sempre, è oggetto d’interesse. Lei si è fatto una sua idea?
«Premetto che, girando film da trent’anni, un po’ negli Usa e per tre mesi all’anno fuori, non mi identifico con l’essere americano. Magari, mi sento più newyorkese. Comunque non sono proprio innamorato dell’attuale amministrazione».


Che tipo di regista è Paul Schrader, visto che da anni lavorate insieme?
«È un cineasta molto articolato, con un’estetica estremamente personale. Con lui, sul set, il rapporto però è scarno».
Meglio il cinema o il teatro?
«Il cinema. Perché il tuo personaggio, magari, dura un giorno soltanto e perciò devi essere molto più intenso, mentre stai lavorando».

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