Cronaca locale

Woods, l’erede di Parker svela il suo jazz «bianco»

Il sassofonista di Springfield apre la stagione del Blue Note: due concerti ogni sera con la sua band fino a giovedì

Franco Fayenz

A un cultore di jazz mediamente informato, è quasi superfluo spiegare chi sia il sassofonista contralto, clarinettista, compositore e arrangiatore Philip Wells Woods, in arte Phil Woods, nato a Springfield, Massachusetts, il 2 novembre 1931 sotto l’aureo segno dello Scorpione. È al centro della ribalta dalla metà degli anni Cinquanta, e oggi arriva con il suo quintetto al Blue Note di via Borsieri 37 per inaugurare la stagione 2005-2006 del club. Come il Giornale ha già annunciato, si trattiene fino a giovedì 8 settembre per tenere ogni sera due concerti, alle 21 e alle 23.30.
Se c’è un erede legittimo del grande insegnamento di Charlie Parker, dal quale poi ha saputo discostarsi senza però mai rinnegarlo, questi è Phil Woods. Il fatto che Woods sia bianco mentre Parker era nero, una differenza che a suo tempo aveva un peso non lieve nella musica afro-americana, non ha contato nulla in questo rapporto; ma ha indotto Woods ad aver cura di non cadere mai nella imitazione, comune a molti altri sassofonisti. Eppure, la devozione verso il maestro gli ha fatto sposare la vedova di Parker, Chan Richardson, e usare finché è stato possibile il famoso sax alto che era rimasto inutilizzato in casa.
Uno dei primi dischi dove si possa apprezzare Woods è Friedrich Gulda at Birdland della Rca. Era l’esordio discografico come jazzman dell’indimenticabile pianista viennese. L’incisione dal vivo risale al 28 giugno 1956: Gulda aveva 26 anni, Woods 25 e Parker era morto da poco più di un anno. C’è soprattutto una bella composizione di Gulda, Dark Glow, nella quale Woods si ascolta nitidamente e a lungo anche in assolo. Senza dubbio somiglia a Parker, ma non lo si può confondere (come allora poteva accadere, per esempio, con un Sonny Stitt). Ha una dolcezza propria, usa note ribattute eleganti, e il fraseggio perfetto e la sonorità rivelano l’astro nascente.
L’esordio di Woods era avvenuto nel 1954 con Charlie Barnet, quindi a 24 anni: piuttosto tardi per un jazzista importante fin dall’inizio. Ma prima, il sassofonista si era preoccupato soprattutto di studiare, studiare, studiare. A 13 anni, dopo aver ricevuto in eredità dallo zio un sax alto, ha occasione di ascoltare Ko-Ko di Parker e ne rimane estasiato, per cui decide che quello strumento e quella musica saranno la sua vita.
In seguito, è impossibile tener dietro alle infinite imprese concertistiche, discografiche e alle tournée di Woods in tutto il mondo, e citare i maestri con i quali ha collaborato e i gruppi che ha diretto, la qual cosa d’altra parte esula dall’impegno di questa presentazione. Ci basti porre in evidenza che Woods, a suo tempo, si è accostato fra l’altro al jazz informale, forse con un approccio simile a quello che avrebbe avuto Parker se fosse sopravvissuto (mentre Ornette Coleman sembra piuttosto incarnare un nuovo prototipo).
È anche importante ricordare il periodo in cui, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Woods visse in Europa e fondò la European Rhythm Machine, uno dei suoi gruppi più amati dagli intenditori.

Suonò a Milano per una settimana nel club Jazz Power, allora attivo in piazza Duomo, con Gordon Beck al pianoforte, Ron Mathewson al contrabbasso, Daniel Humair alla batteria, e fu un trionfo.

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