Zampata dell’Italia su Berlino I Taviani vincono l’Orso d’oro

Trionfa il film drammatico "Cesare deve morire", dei fratelli registi Paolo e Vittorio. Da 21 anni il nostro Paese non conquistava il premio

Zampata dell’Italia su Berlino  I Taviani vincono l’Orso d’oro

Alla fine, Berlino premia Roma. L’Orso d’Oro della 62esima Berlinale, zeppa come mai di star francesi sia in giuria sia in competizione, è andato a Cesare deve morire dei fratelli Taviani, in gara con un docufilm ambientato nel carcere capitolino di Rebibbia e interpretato dai detenuti. «Questi detenuti-attori hanno dato se stessi per realizzare il film», ha dichiarato Paolo Taviani (80 anni), riandando con la memoria ai giorni delle riprese, avvenute nella sezione «Fine pena mai» e nominando i carcerati. «A loro va il nostro pensiero, mentre noi siamo qui tra le luci, loro sono nella solitudine delle loro celle. E quindi dico grazie a Cosimo, Salvatore, Giovanni, Antonio, Francesco e Fabione. Anche un detenuto, su cui sovrasta una terribile pena, resta un uomo, grazie alle parole sublimi di Shakespeare», ha detto il più giovane dei Taviani, avendo Vittorio due anni in più del fratello.

Con Cesare deve morire, i cineasti consegnano alla propria filmografia un altro pamphlet politico (dopo Padre padrone, 1977 e La notte di San Lorenzo, 1982) e dopo 21 anni rimettono l’Italia sul podio tedesco, laddove sembrava favorito il dramma del tedesco Christian Petzold sulla DDR, Barbara, Orso d’argento per la migliore regia. «Penso che questa esperienza ci rimarrà dentro, anche come contraddizione, e come grande momento di qualità», ha scandito Vittorio Taviani, sottolineando che l’Orso d’Oro italiano, in questo momento, può contribuire «a costruire un ponte, sul fronte culturale».

Presieduta dal regista inglese Mike Leigh, la giuria della Berlinale non si è fatta pregare, convinta da subito che ai fratelli veterani d’un certo cinema artigianale di qualità si dovesse pagare un tributo, tardivo ma necessario. E mentre da noi si discute sul decreto «svuota carceri» e il ministro della Giustizia, Paola Severino, viene criticato per come affronta la questione del sovraffollamento nelle nostre prigioni, Cesare deve morire manda un segnale di speranza. «Ci fa piacere vincere un premio in un festival come questo, che non ha un indirizzo generico, ma che al contrario ha un carattere molto specifico: cerca forze nuove e cerca forze che si appassionano a tematiche sociali», ha chiarito Paolo Taviani. Va comunque ricordato che, in tempi di crisi, alcune «forze nuove» - nello specifico, i detenuti-attori - s’impongono pure in virtù del basso costo da esse richieste: è appena il caso di menzionare gli operatori dei call-center, che lavorano da dietro le sbarre per cifre assai modeste.

Rai Cinema, sponsor del film a metà tra documentario e cinema-verità, ha commentato tramite il suo presidente, Franco Scaglia: «Cesare deve morire è un’opera che tocca magistralmente le corde profonde della vita carceraria, tra battute shakespeariane e dialetti quotidiani, tra il desiderio di riscatto e la durezza delle pene da scontare. Anche per questo l’Orso d’Oro è un premio importante».

Per Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema, è significativo che l’opera dei Taviani rientri «nella nostra linea di produzione di cinema civile». Nel docufilm, la messa in scena del Giulio Cesare, preparata con cura e studio da parte dei detenuti, pronti a ripassare le battute del Bardo anche nelle loro celle e non solo sul palco di Rebibbia, dona agli attori-detenuti diverso approccio alla vita.

Con l’Orso d’Oro ai fratelli Taviani, esteticamente fermi ai Settanta, la Berlinale conferma la propria vocazione politica, intanto che a Roma (tartufescamente) s’invoca un festival sganciato dalle necessità della Realpolitik.

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