Zanazzi, ottant’anni in sella «Il mio ciclismo era pulito»

«Lungo i Navigli pedalo ancora per 40 chilometri al giorno, sempre in gamba perché non fumo, mangio bene e non mi sono mai dopato»

Zanazzi, ottant’anni in sella «Il mio ciclismo era pulito»

Sulla parete c’è una foto in bianco e nero incorniciata: due corridori ancora in sella e sorridenti. Accanto una vecchia pagina, ormai rosa pallido, della Gazzetta dello Sport. Renzo Zanazzi, classe 1924, dalla provincia di Mantova, le mostra orgoglioso nella rimessa di bici che gestisce a Milano insieme con suo figlio. Nel frattempo racconta gli anni gloriosi vissuti su due ruote, girando per il mondo con Coppi e Bartali. Per sei anni è stato il loro gregario: ha combattuto e vinto accanto a loro. Li ha aiutati nei momenti difficili. Adesso, a 83 anni, di scendere dalla bici non ne vuole proprio sapere «perché è la mia pillola. Senza non potrei vivere». Così ogni anno percorre almeno 15mila chilometri: una media di 80 ogni due giorni. «Molte persone mi chiedono come faccia - racconta -. Rispondo che è certamente merito della natura, ma anche della vita sana che ho sempre condotto. Non fumo, mangio bene e non ho mai assunto “schifezze”. In questo modo, nessuno riesce a fermarmi».
Sorridente e in perfetta forma, ricorda volentieri le gare, i trofei, gli anni vissuti con le leggende delle due ruote. La sua carriera comincia a 15 anni, nel ’39, «quando il ciclismo era ancora a zero. La mia prima corsa fu la Milano-Varese, una classica dell’epoca. Sono partito con soli tre centesimi in tasca, appena sufficienti per comprare un pezzo di pane. Subito dopo sono tornato a casa. Correvo tra gli aspiranti: avevo addosso solo una maglietta e un paio di pantaloncini che avevo comprato io».
Tempi ben diversi da quelli attuali. «Oggi i ciclisti sono molto fortunati. Gli sponsor coprono tutte le spese, ci manca solo che acquistino anche la casa». A seguire il passaggio nella categoria allievi e poi dilettanti. «Ci sono rimasto durante la guerra. Nel 1943 mi sono arruolato. Due anni dopo, a guerra finita, ho ricominciato a correre».
Dopo la Liberazione, Zanazzi diventa professionista. «È successo dopo il circuito degli Assi, al quale ho partecipato da dilettante accanto ai professionisti. Sono arrivato secondo alle spalle di Fausto Coppi, dopo aver vinto numerose volate. Mi sono messo in luce e sono stato chiamato dalla Legnano. Bartali non mi voleva perché pensava fossi troppo giovane. Invece, sono stato la sua fortuna». Senza Zanazzi, il grande campione non avrebbe vinto il Giro d’Italia del ’46. «Ero l’unico della squadra a correre con lui. L’ho aiutato a cambiare una gomma forata».
Da quel giorno, di vittorie Zanazzi ne ha raccolte tante: maglia rosa nel 1947, primo sul traguardo della Zurigo-Losanna, vincitore di una tappa a un giro di Svizzera, per alcuni giorni maglia gialla al Tour de France ’47. Primo, sempre nel ’47, nella tappa Milano-Torino del Giro, con sette minuti di vantaggio su Coppi. «Ho smesso nel 1952 perché gli stipendi stavano diventando troppo bassi e perché cominciavano a circolare sostanze che non mi piacevano. Ho iniziato a lavorare. Insieme con mio fratello abbiamo fondato una società sportiva che in alcuni periodi ha contato anche cento tesserati. Nonostante tutto, ho continuato a correre come veterano per tre anni, vincendo due campionati lombardi, uno veneto e uno toscano».
Ma di quei giorni a girare l’Europa con Coppi e Bartali ricorda nitidamente ogni particolare. Come quella volta in cui lui e Casola fecero cadere in acqua Serse Coppi, fratello di Fausto. «Era vestito di tutto punto, con uno spintone finì in una pozza marcia. Se Fausto non fosse intervenuto per difenderci ci avrebbe picchiati». O quella volta, sempre con il fidato amico Casola, a guerra appena finita finsero di essere fascisti. «Eravamo in un paesino di montagna del Sud, cominciammo a cantare inni per prendere in giro gli abitanti del luogo. Eravamo convinti che, nel 1946, sapessero che la guerra era ormai finita. Invece, ci siamo resi conto che non erano informati».
L’ironia e la voglia di scherzare sono rimasti intatti. Come l’intenzione di salvare il ciclismo. «È in difficoltà, girano troppe droghe. Così gli atleti si rovinano. E fra cinquant’anni non potranno fare la vita che conduco io. Il movimento si può ancora salvare, ma bisognerebbe far pulizia a partire dai giovanissimi». Inoltre, dice, mancano spazi adeguati per praticare questo sport. «Siamo indietro rispetto al resto d’Europa. Nel ’47 in Belgio c’erano già moltissime piste ciclabili. A Milano ce ne sono troppo poche, a parte quella lungo il Naviglio Grande sulla quale corro io.

Inoltre, dopo il crollo del velodromo di San Siro, non è stato più costruito un impianto simile». Zanazzi conclude con un sorriso e la speranza che si intervenga presto, poi saluta. Deve scappare: lo spettano altri 80 chilometri.

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